“Ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova della conoscenza o conoscibilità, secondo la massima diligenza esigibile da un accorto operatore professionale, dell’esistenza di una frode IVA consumata a monte della catena produttiva o distributiva, le cautele che si richiede che il cessionario sia tenuto ragionevolmente ad adottare, perché si escluda il suo coinvolgimento, anche solo per colpevole ignoranza, nella frode commessa a monte, non possono attingere a verifiche complesse e approfondite, analoghe a quelle che l’amministrazione finanziaria avrebbe i mezzi per effettuare”.
È questo il principio di enunciato dalla Corte di cassazione, nella ordinanza 21 maggio 2024 n. 14102 (Pres.Federici, Rel. D’Aquino).
Nel caso specifico la CTR aveva attribuito alla società ricorrente, in veste di acquirente, sul presupposto che il cedente era soggetto privo di organizzazione in quanto non dotato di manodopera al fine di eseguire le lavorazioni commissionate dalla contribuente, e che il cedente si era simulatamente dotato di strumenti di produzione (macchine da cucire). Gli elementi indiziari valorizzati dal giudice di appello si sono focalizzati, nella sostanza, alla struttura organizzativa del cedente e non anche a eventuali ricadute negoziali dell’assenza di organizzazione del fornitore, come livelli fuori mercato dei prezzi di cessione, o patti di retrocessione della quota IVA versata (come nota il ricorrente), ovvero anomale dinamiche di approvvigionamento, di stoccaggio della merce, di pagamento.
Al contrario l’impresa cedente risultava regolarmente iscritta al Registro delle Imprese e a una più approfondita analisi della struttura organizzativa della stessa il ricorrente non vi avrebbe potuto procedere con gli stessi strumenti di indagine di cui possono disporre gli Uffici finanziari.
Questo quadro indiziario è per la verità comune alla gran parte degli accertamenti e una giurisprudenza ancora non aggiornata alle elaborazioni eurounitarie ed interne finisce con l’avallare sovente una tale impostazione.
Anche le prove che si portano (certificati camerali dell’epoca, DURC richiesti prima di iniziare il rapporto commerciale) spesso non vengono considerati giacché una vera e propria giurisprudenza in punto di prove non c’è.
Ma così facendo si dimentica che la prova della conoscibilità della frode con mezzi ordinari spetta all’Agenzia delle Entrate e che non è il contribuente a dover provare la propria buona fede quanto la parte pubblica ad avere l’onere di evidenziare il modo nel quale la frode sarebbe stata percepibile. Con i mezzi ordinari di cui dispone un imprenditore accorto, ma non con strumenti di “intelligence” come certe pronunce della Corte UE affermano con chiarezza.
La Suprema corte nel caso specifico ricorda il consolidato orientamento di legittimità secondo cui in ipotesi di detrazione di fatture emesse da società prive di organizzazione o da soggetti interposti, l’Amministrazione deve provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inserisca in una evasione dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza. Assolto tale onere, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato con la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in rapporto alle circostanze concrete.
Per i Giudici l’assenza di cautele del cessionario non può essere provata pretendendo verifiche approfondite, analoghe a quelle svolte dall’amministrazione con tutti i mezzi a sua disposizione.