Corte Costituzionale: non fondata la questione della indeducibilità dell’IMU dall’IRAP. Dubbi sulla impostazione “non tradizionale” del concetto di capacità contributiva.

by AdminStudio

La Corte Costituzionale nella Sentenza n. 21 depositata il 20 febbraio 2024, ritiene legittima la indeducibilità dell’Imu dall’Ires, in vigore con percentuali di sconto crescenti dal 2012 al 2019, avanzate dalle Corti di giustizia tributaria di Como e di Genova.

La questione prende origine dalla sentenza 262 del 2020, redatta da Antonini come la presente. In tale occasione la Consulta aveva dichiarato illegittimo il testo originario dell’articolo 14, comma 1 del Dlgs 23/2011 sul federalismo municipale in cui era stabilita la totale indeducibilità dall’Ires dell’Imu pagata dalle aziende sui loro immobili strumentali.

Con riferimento a tale autorevole precedente alcune Corti di Giustizia tributaria hanno ritenuto di rinviare alla Corte Costituzionale le analoghe questioni relative alla indeduciblità dell’IMU dall’IRAP.

Precisamente:

  • Con ordinanza del 15 settembre 2023 (iscritta al n. 154 reg. ord. 2023), la Corte di giustizia tributaria di primo grado di Torino, sezione 1, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 715, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui prevede che «[l]’imposta municipale propria relativa agli immobili strumentali è deducibile ai fini della determinazione del reddito di impresa e del reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni nella misura del 20 per cento. La medesima imposta è indeducibile ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive».
  • Con ordinanza del 17 gennaio 2023 (iscritta al n. 34 reg. ord. 2023) la Corte di giustizia tributaria di primo grado di Como, sezione 3, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 715, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui prevede che «[l]’imposta municipale propria relativa agli immobili strumentali è deducibile ai fini della determinazione del reddito di impresa e del reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni nella misura del 20 per cento. La medesima imposta è indeducibile ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive».

Nel primo rinvio si cita una relazione della Fondazione Telos dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Roma nella quale si evindenza che il passaggio contenuto nella parte finale della motivazione della sentenza n. 262 del 2020 conterrebbe il riferimento operato al «“virtuoso percorso”» intrapreso dal legislatore, che avrebbe nel tempo graduato la misura della deducibilità fino a pervenire alla totale deducibilità dell’IMU dal 2022. E’ chiaro allora che in questo virtuoso percorso non dovrebbe ravvisarsi un diverso trattamento per l’IRAP.

Inoltre si osserva che nel mantenimento di questa diversità di trattamento non potrebbe assumere rilievo giustificativo l’esigenza di rispettare l’equilibrio di bilancio, perché la richiamata sentenza n. 262 del 2020 avrebbe espressamente precisato che ad essa il legislatore deve rispondere in modo trasparente, aumentando l’aliquota dell’imposta principale e non «attraverso incoerenti manovre sulla deducibilità, che si risolvono in discriminatori, sommersi e rilevanti incrementi della base imponibile a danno solo di alcuni contribuenti».

In sostanza, riuniti i giudizi, la Corte osserva che i giudici rimettenti, con motivazioni sostanzialmente analoghe, evidenziano che la norma censurata violerebbe:

a) l’art. 53 Cost., sotto il profilo della capacità contributiva, perché la spesa per il pagamento dell’IMU sui beni strumentali dovrebbe essere considerata un costo certo e inerente alla produzione del reddito;

b) l’art. 53 Cost., sotto il profilo del divieto della doppia imposizione per la duplicazione dell’imposta sul medesimo presupposto;

c) gli artt. 3 e 53 Cost., con riferimento al principio di ragionevolezza, data la mancanza di coerenza con la struttura del presupposto dell’IRES;

d) l’art. 3 Cost., per l’impatto sulla equità orizzontale;

e) l’art. 41 Cost., perché risulterebbe penalizzata la scelta dell’impresa di investire gli utili nell’acquisto degli immobili strumentali.

L’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per insufficiente motivazione sulla rilevanza, evidenziando, nel primo giudizio, che il rimettente avrebbe «omesso il doveroso accertamento dell’effettiva strumentalità degli immobili e tale omissione determina l’inammissibilità della questione anche con riferimento all’indeducibilità dell’IMU dall’IRAP».

Per la Corte l’eccezione è fondata.

In punto di rilevanza il rimettente si è limitato, secondo la Consulta, a richiamare la sentenza n. 262 del 2020, evidenziando, da un lato, che in tale giudizio la parte era una società operante nel settore immobiliare e, dall’altro, che «il caso appare speculare a quello oggetto della presente ordinanza di rimessione». In questi termini, la motivazione sulla rilevanza sconta esattamente i medesimi limiti che hanno fondato le ragioni di inammissibilità espresse  con l’ordinanza n. 156 del 2022, non essendo stato compiuto alcun accertamento sulla natura strumentale dei beni per i quali era stata versata l’IMU.

In particolare, in tale ordinanza questa Corte ha rilevato «che, a ben vedere, l’affermazione del giudice a quo secondo cui “il caso [oggetto dell’odierno incidente] appare speculare” a quello relativo» alla sentenza n. 262 del 2020, «non consente di superare le evidenziate omissioni in ordine alla rilevanza, ma anzi le aggrava; che, infatti, a volere intendere la “specularità” evocata dal rimettente quale implicita motivazione sulla rilevanza, si dovrebbe concludere che anche in questo caso (come in quello deciso con la citata sentenza n. 262 del 2020) la società ricorrente nel giudizio principale operi nel settore immobiliare».

Proprio questa evenienza, invece, «avrebbe richiesto al giudice a quo di accertare, ai fini dell’applicabilità della norma censurata, la effettiva strumentalità degli immobili in relazione all’oggetto sociale»; tale «precisazione sarebbe stata ancora più necessaria» in considerazione di quanto stabilito dell’art. 2, comma 2, lett. a), del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 102 (Disposizioni urgenti in materia di IMU, di altra fiscalità immobiliare, di sostegno alle politiche abitative e di finanza locale, nonché di cassa integrazione guadagni e di trattamenti pensionistici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 ottobre 2013, n. 124, introduttivo di un regime di esenzione dall’IMU a partire dal 2014 per i fabbricati costruiti e destinati dall’impresa costruttrice alla vendita.

Fondata viene ritenuta anche l’eccezione di inammissibilità per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza, sollevata, con riferimento alla questione della parziale deducibilità dell’IMU sui beni strumentali dall’IRES, dall’Avvocatura nel secondo giudizio in quanto il rimettente, pur rifacendosi alle argomentazioni della sentenza n. 262 del 2020, ha omesso di confrontarsi con il passaggio finale della motivazione, dove questa Corte non ha ritenuto di estendere, in via consequenziale, alle annualità successive le determinazioni di illegittimità costituzionale cui era giunta con riferimento al periodo di imposta 2012.

La Consulta rileva inoltre che le due ordinanze di rimessione abbiano motivato i dubbi di legittimità costituzionale come se le questioni attinenti alle norme da esse censurate fossero esattamente identiche – o si differenziassero solo per aspetti meramente marginali – a quelle decise con la sentenza n. 262 del 2020. Ciò  anziché motivare autonomamente il dubbio di legittimità costituzionale (sentenza n. 186 del 2023). Dal momento che entrambe le ordinanze non si confrontano sufficientemente con la diversità tra le norme censurate, che prevedono una deducibilità dell’IMU sui beni strumentali dall’IRES pari al 20 per cento, e quella che prevedeva un regime di indeducibilità totale, poi dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 262 del 2020, le questioni con esse sollevate vengono dichiarate inammissibili, in relazione a questo punto, per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza.

Inammissibilità a parte, la questione viene ritenuta non fondata.

Nel caso dell’IRAP, il legislatore «ha individuato quale nuovo indice di capacità contributiva, diverso da quelli utilizzati ai fini di ogni altra imposta, il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate» (sentenza n. 156 del 2001).

L’imposta, che a suo tempo è stata introdotta nell’ordinamento per incrementare l’autonomia finanziaria delle regioni, sostituendo cinque preesistenti e diversificate forme di prelievo, trova quindi la sua specifica giustificazione nella manifestazione di una capacità produttiva derivante dal potere di organizzazione e coordinamento dei fattori della produzione.

Questa grandezza, in quanto tale, prescinde dalla produzione di un reddito, al punto da poter colpire anche attività in perdita, purché si sia generato un valore aggiunto riferibile alle attività autonomamente organizzate.

Inserendosi nel moderno filone di quelle imposte che assumono a loro fondamento una nozione di capacità contributiva che supera il legame con i più tradizionali indici come il patrimonio e il reddito (sentenza n. 288 del 2019), l’IRAP è stata applicata su «un fatto economico, diverso dal reddito, comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione» (sentenza n. 156 del 2001).

Va precisato, però, che, per effetto di numerose modifiche normative, che nel tempo si sono stratificate sul quadro originario, la disciplina sulla determinazione della base imponibile dei singoli settori di attività e sulla natura dei soggetti passivi si è sviluppata in modo assai articolato e complesso, risultando caratterizzata da «regimi particolari, specificamente individuati dal legislatore in ragione delle diverse attività» (sentenza n. 12 del 2022).

Nell’ordinamento si è manifestata, poi, una linea di tendenza rivolta al progressivo svuotamento di tale imposta, come risulta dall’art. 1, comma 8, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), il quale ha previsto che, a decorrere dal periodo d’imposta 2021, l’IRAP non è dovuta dalle persone fisiche esercenti attività commerciali ed esercenti arti e professioni e, soprattutto, in termini più generali, dall’art. 8, comma 1, lett. a), della legge 9 agosto 2023, n. 111 (Delega al governo per la riforma fiscale), che ha infine demandato al Governo di «procedere al graduale superamento dell’imposta».

La struttura dell’imposta, in ogni caso, non si fonda su un modello della deducibilità dei costi assimilabile a quello che, in base al principio di inerenza, è linearmente riscontrabile nella disciplina dell’IRES.

In quest’ultima imposta, infatti, l’elemento materiale del presupposto s’identifica con il reddito netto – in ragione degli artt. 73 (Soggetti passivi), 75 (Base imponibile) e 83 (Determinazione del reddito complessivo) del TUIR –, al punto da consentire di ravvisare un carattere strutturale nella deduzione dell’IMU sugli immobili strumentali (sentenza n. 262 del 2020).

L’IRAP, invece, colpisce «con carattere di realità, un fatto economico, diverso dal reddito» (sentenza n. 156 del 2001) e la base imponibile è data dal «valore della produzione netta derivante dall’attività esercitata nel territorio della regione» (art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 446 del 1997). La determinazione della base imponibile è, poi, differenziata a seconda dei soggetti passivi e, nel caso delle società di capitali, quali quelle in questione nel giudizio a quo, si determina (art. 5 del d.lgs. n. 446 del 1997) principalmente in base alla «differenza tra il valore e i costi della produzione di cui alle lettere A) e B) dell’articolo 2425 del codice civile, con esclusione delle voci di cui ai numeri 9), 10), lettere c) e d), 12) e 13)».

Secondo la logica propria dell’imposta, dal valore della produzione vengono, quindi, scorporati solo alcuni costi, senza tenere conto, ad esempio, di quello del personale (almeno secondo l’impostazione originaria, atteso che il legislatore, nel corso del tempo, ha introdotto, nell’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 446 del 1997, ipotesi specifiche di costi deducibili sostenuti per il personale e, soprattutto, tra queste, quella del comma 4-octies del medesimo articolo, che stabilisce la deducibilità del costo del personale dipendente con contratto a tempo indeterminato e, a determinate condizioni e con un preciso limite, anche dei lavoratori stagionali), con una radicale differenza rispetto a quanto avviene per la determinazione della base imponibile dell’IRES, dove, in base al principio di inerenza, tale esclusione non sarebbe concepibile.

In questi termini, nonostante l’assonanza terminologica, il riferimento al «valore della produzione netta» assume un carattere marcatamente diverso da quello del «reddito netto», perché nell’IRAP la scelta di metodo compiuta dal legislatore al fine di individuare la base imponibile è stata operata attraverso un criterio di “sottrazione”, da cui viene però escluso un consistente insieme di voci (in particolare artt. 5, commi 1 e 3, nonché 11).

Tale scelta evidenzia, dunque, una profonda differenza tra il criterio di calcolo del valore della produzione netta e quello del reddito netto, dal momento che alcuni costi necessariamente inerenti e deducibili per quest’ultima grandezza non sono considerati scorporabili o deducibili per la prima.

La particolarità della tecnica impositiva che contraddistingue l’IRAP conduce, pertanto, a concludere che il principio della necessaria deducibilità dell’IMU sugli immobili strumentali, affermato da questa Corte in relazione all’IRES, non può essere pedissequamente traslato, come invece pretende il rimettente – evocando la categoria della «ricchezza non realmente prodotta» e usando la leva di una nozione di inerenza che si è sviluppata in riferimento all’imposta sul reddito –, a una imposta differente dove la considerazione delle componenti negative segue un criterio diverso.

Ci riserviamo un approfondimento sulla rivista, nel numero di fine febbraio se possibile o in quello successivo. Tuttavia suscita una certa perplessità tornare a concetti di base imponibile “che supera il legame con i più tradizionali indici come il patrimonio e il reddito” per giustificare una evidentissima violazione del principio costituzionale di capacità contributiva. Se con 100 euro si paga IMU a nostro avviso, non ha alcun fondamento giuridico pagare anche il 3,9% di questi 100 euro a titolo di IRAP con una imposizione maggiore del provento conseguito. Questo non è un concetto “moderno” di capacità contributiva, ma una forzatura al principio di effettività e di ragionevolezza. Su questa base, superando l’impostazione di fine anni ’90, si è progressivamente operata la revisione dell’IRAP attraverso correttivi al meccanismo di deducibilità dei costi, revisione che prelude con tutta probabilità alla futura scomparsa progressiva di questo vero e proprio “Frankenstein” del diritto tributario, di cui non sentiremo sicuramente la mancanza.

 

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