La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 58, D.lgs. n. 546/1992, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera bb), D.lgs. n. 220/2023 che ha sancito, per i giudizi instaurati dal 4 gennaio 2024, il divieto di depositare nel giudizio di secondo grado determinate categorie di documenti, tra cui “le notifiche dell’atto impugnato”.
Parliamo, nel caso specifico, della Ordinanza 7 luglio 2024, n. 1658 della Corte Di Giustizia Tributaria Di Secondo Grado Della Campania – sezione/collegio 16.
Nel caso di specie, il contribuente aveva impugnato una intimazione di pagamento eccependo, tra gli altri motivi, la mancata notifica delle cartelle presupposte.
L’Agenzia delle Entrate – Riscossione, solo nel giudizio di appello, aveva prodotto la copia di n. 15 relate a dimostrazione della regolare notifica delle cartelle sottese all’intimazione de qua. Secondo i giudici remittenti, la disposizione censurata contrasta con l’art. 3, comma 1, Cost., in combinato disposto con gli artt. 102, comma 1, 111, comma 1 e 24, comma 2, Cost., in quanto priva il giudice del potere di delibazione sulla “indispensabilità” dei documenti nuovi che il primo comma, invece, espressamente gli concede.
È chiaro che il legislatore, nel novellare l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, inserendo il denunciato terzo comma di assoluto nuovo conio nel generale panorama processuale, è incorso in un’autoevidente contraddizione: priva il giudice del potere di delibazione che il primo comma gli concede. Il che costituisce un indice sintomatico di irragionevolezza e illogicità intrinseca della disposizione, che, peraltro, come in seguito esplicitato, si traduce in un trattamento differenziato delle parti in lite privo di una valida ragione giustificativa.
Secondo i Giudici deve reputarsi che il legislatore, sotto le spoglie del divieto di deposito di siffatta documentazione, non può compiere a monte egli stesso siffatto giudizio di indispensabilità, reso, peraltro, in senso negativo in modo imperscrutabile, non essendo stato osservato alcun criterio di razionalità pratica ispirato all’id quod plerumque accidit. Neanche ab ovo si comprende, sotto tale profilo, la ratio della tassonomia espressa dal legislatore nel delineare la categoria di documenti non depositabili, i quali, al contrario, trovano il loro principale tratto comune distintivo nella possibile decisività della loro tardiva produzione nel determinare l’esito della lite.
Tale perimetrazione in negativo della potestas iudicandi, a ben vedere, si sostanzia anche in un’illegittima intromissione del legislatore in un ambito, quello della valutazione della indispensabilità del compendio istruttorio, riservato all’Autorità Giudiziaria. Si specifica che il legislatore ben può tipizzare il valore probatorio di determinate prove, così come avviene per le prove legali. Del pari, può impedire l’acquisizione di alcuni determinati mezzi di prova, anche in appello. Ma ciò che non gli è consentito è enucleare una serie eterogenea di documentazione, inibendo in relazione a essa – e non anche alla generalità delle prove precostituite- al giudice di appello l’esercizio di ogni potere delibativo sul punto, senza alcuna ragionevole giustificazione.
Quanto precede sostanzia non solo la consumazione di un vulnus alle funzioni attribuite al potere giudiziario dal comb. disp. artt. 102, primo comma (che mutatis mutandis presidia da intromissioni esterne anche la funzione giurisdizionale esercitata in materia tributaria da quest’organo speciale di giurisdizione optimo iure e non solo ai limitati fini del giudizio incidentale di costituzionalità) – 111, primo comma, Cost., ma norma anche una menomazione del diritto di difesa di cui all’art. 24, secondo comma, Cost., qualificato dalla giurisprudenza costituzionale come «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale (sentenze n. 18 del 2022, n. 238 del 2014, n. 232 del 1989 e n. 18 del 1982) e «inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova»: v. sul punto la sentenza n. 41 del 2024, che, a sua volta, richiama la sentenza n. 275 del 1990.
Accanto alla violazione dell’art. 3 Cost. e al delineato contrasto con il comb. disp. di cui agli artt. 102, primo comma, 111, primo comma, 24, secondo comma, Cost, è registrabile anche un’antinomia dell’art. 58, terzo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992 con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., secondo la declinazione, di recente, offerta dalla sentenza n. 96 del 2024 per cui il «giusto processo», nel quale si attua la giurisdizione e si realizza il diritto inviolabile di difesa, comporta necessariamente che esso «si svolga nel contraddittorio tra le parti», nonché – prescrive ulteriormente l’art. 111, secondo comma, Cost. – «in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale».
Il contraddittorio è, invero, un momento fondamentale del giudizio quale cardine della ricerca dialettica della verità processuale, condotta dal giudice con la collaborazione delle parti, volta alla pronuncia di una decisione che sia il più possibile “giusta”.
La qui censurata opzione legislativa, invero, ostacola il giudice nel suo compito (come insegnano autorevoli autori stranieri) di colmare il gap fra law and society, irragionevolmente impedendogli di muoversi verso l’orizzonte teleologico proprio di qualsiasi processo: pervenire a una decisione possibilmente giusta. E a tal fine è auspicabile giungere al disvelamento, sempre nei limiti dell’esigibile e della comprensibilmente natura finita della risorsa giustizia, della verità materiale.
Né il descritto sacrificio dell’esercizio della funzione giurisdizionale è giustificato dall’esigenza di assicurare piena tutela al principio della ragionevole durata. Di là che la delibazione dell’indispensabilità di tutta la documentazione versata in atti non comporta un apprezzabile dispendio di energie processuali e di tempo, va rimarcato che, come chiarito da autorevole dottrina, «funzione cognitiva del processo, imparzialità del giudice, diritto di difesa, sono […] i primari valori di giustizia», rispetto ai quali la «ragionevole durata svolge un ruolo sussidiario, come condizione di efficienza», da non intendere in senso riduttivo, ma resta fermo «un ordine logico, una cadenza nella definizione dei valori». D’altronde, il principio di ragionevole durata – ha di recente ribadito la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 67 del 2023) – è leso soltanto da «norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza». Senza considerare poi che la durata ragionevole del processo, in caso di ipotetico ampliamento dei tempi di definizione del giudizio in ragione della produzione dei documenti indicati dall’art. 58, comma 3 potrebbe essere comunque assicurata da specifiche disposizioni in tema di governo delle spese di lite.
Ma, ancora, l’art. 111, secondo comma, Cost. è violato là dove si incrina il principio di eguaglianza fra le parti, ravvisabile nel rilievo per cui situazioni omogenee sono disciplinate in modo ingiustificatamente diverso (ex plurimis, sentenze n. 67 del 2023, n. 270 del 2022, n. 165 del 2020, n. 155 del 2014, n. 108 del 2006, n. 340 e n. 136 del 2004).
Risulta, infatti evidente la violazione del principio della parità delle parti nel processo, che trova una chiara copertura costituzionale nell’art. 111, primo e secondo comma Cost. e nell’art. 24, secondo comma Cost. dal momento che i loro poteri processuali in sede di gravame risultano disomogenei: mentre il privato può produrre nuovi documenti, sia pure negli attuali limiti fissati dall’art. 58, commi 1 e 2, la parte pubblica non può produrre i documenti di cui al comma 3 in presenza dei medesimi presupposti. Non può ignorarsi, infatti, che la tipologia specifica dei documenti annoverati dal citato comma 3 dell’art. 58, per le caratteristiche generali del diritto e del processo tributario e secondo una oggettiva regola di esperienza, riguardi gli atti che rendono legittima la pretesa tributaria della parte pubblica e, quindi, attenga all’attività difensiva che essa ordinariamente svolge.
Secondo il dato testuale, peraltro, la produzione dei nuovi documenti indicati al comma 3 non sarebbe possibile neppure quando la necessità di tale versamento derivi dalle difese articolate nell’appello da parte del contribuente e/o dal deposito di documenti effettuato in conformità ai primi due commi dell’art. 58.
La produzione dei documenti allegati all’atto di controdeduzioni in appello risulta indispensabile, ma non è consentita dall’art. 58.
Avendo il contribuente impugnato l’ingiunzione per l’omessa notifica delle cartelle e per la prescrizione, e non quale forma di tutela recuperatori per vizi delle cartelle stesse, l’atto impugnato risulterebbe viziato dalla mancata notifica degli atti presupposti.
Gli atti di cui l’Agenzia Entrate – Riscossione chiede l’acquisizione risultano, pertanto, indispensabili ai fini del decidere, ma non possono essere acquisiti, con evidente violazione del principio della parità delle armi. Infatti, non deve trascurarsi che la stessa Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale collegata alla diversità dei poteri processuali delle parti nel rito tributario (art. 58) civile (art. 345 c.p.c.), con denunciata violazione degli artt. 24 e 111 Cost. ha evidenziato che alle parti del giudizio tributario sono riconosciuti poteri identici, affermando, più nel dettaglio, che «nel merito, non è fondata la censura di disparità di trattamento tra le parti del giudizio, sostenuta sulla base del presunto “sbilanciamento a favore di quella facultata a produrre per la prima volta in appello documenti già in suo possesso nel grado anteriore”. Sul punto è sufficiente rilevare che tale facoltà è riconosciuta ad entrambe le parti del giudizio, cosicché non sussistono le ragioni del lamentato “sbilanciamento» (sentenza n. 199 del 2017).
Il comma 3 dell’art. 58 richiama poi il comma 6-bis dell’art. 14, introdotto anch’esso dalla riforma del 2023, il quale dispone che «In caso di vizi della notificazione eccepiti nei riguardi di un atto presupposto emesso da un soggetto diverso da quello che ha emesso l’atto impugnato, il ricorso è sempre proposto nei confronti di entrambi i soggetti». Il litisconsorzio necessario previsto da tale disposizione non rende ragionevole la diversità di trattamento rispetto alla parte privata, ove si consideri che una delle due parti può restare contumace in quanto ciascuno dei litisconsorti necessari di un giudizio ha una sua autonoma posizione processuale che non può dipendere, quando al diritto di difesa, dalla diligenza processuale dell’altro litisconsorte, anche se titolare di interessi analoghi.
8.2. Per quanto riguardo il caso di specie, tale disparità di trattamento e pregiudizio al diritto di agire e resistere in giudizio, non trova una ragionevole giustificazione nella natura della parte pubblica.
Il giudizio tributario, infatti, non è più un mero giudizio di natura demolitoria, imperniato sulla legittimità e sulla sola correttezza motivazionale dell’atto impugnato, ma compendia ampi spazi di rilevanza del materiale probatorio circa la sussistenza del debito tributario e della sua entità.
A riguardo deve osservarsi che il comma 5-bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’ art. 6 della legge n. 130 del 2022, in coerenza con tale linea di tendenza prevede che “[l]’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”. Ne consegue che, specie ove non operino le presunzioni proprie del diritto tributario sostanziale (cui fa comunque indiretto riferimento la norma citata – cfr. Cass. ordinanza n. 2746 del 30 gennaio 2024), l’amministrazione è tenuta a provare la sua pretesa sostanziale non può disporre di poteri probatori più limitati rispetto alla controparte.
In conclusione va notato con soddisfazione che le norme scritte sotto dettatura dell’AdE a volte impattano in Giudici che fanno ancora il proprio lavoro e che quando sono eccessivamente stridenti rispetto ai Principi vengono correttamente messe in dubbio di legittimità costituzionale. Attendiamo quindi il giudizio della Consulta nel quale, purtroppo, il peso della politica rischia di essere nuovamente preponderante.