“Sostenere che il mero decreto di rinvio a giudizio, disposto dal giudice in sede penale, possa costituire una presunzione che, da sola, si ponga alla base di un accertamento, soprattutto in tema di operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti, è affermazione erronea ed in palese contrasto con gli approdi ermeneutici, raggiunti in materia dalla giurisprudenza.”.
Questo il principio di diritto affermato con ordinanza n. 19448 del 10 luglio 2023 dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Bruschetta, Rel. Federici).
Nei fatti la controversia afferiva ad un accertamento condotto nei confronti di una s.n.c. con cui l’Amministrazione aveva inteso recuperare costi ritenuti fittizi, perché relativi a fatture riconducibili ad operazioni inesistenti. In particolare tale contestazione era stata fondata, in modo pressoché esclusivo, sul decreto di rinvio a giudizio dell’amministratrice della società. In entrambi i gradi del giudizio i giudici avevano sottolineato l’insufficienza dell’impianto probatorio adottato dall’Agenzia. L’Ufficio ricorreva dunque per la cassazione della sentenza di secondo grado sostenendo che il decreto di rinvio a giudizio costituisse prova presuntiva sufficiente a sostenere gli atti impositivi, e nello specifico la fittizietà delle operazioni fatturate.
Come ricordato dalla Corte, secondo ormai consolidata giurisprudenza, in tema di prova di operazioni soggettivamente inesistenti incombe sull’Amministrazione Finanziaria l’onere di dimostrare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza nel destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione d’imposta. Di conseguenza spetta all’Ufficio dimostrare, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente.
In particolare “ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto” (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851; 30 ottobre 2018, n. 27566; 20 luglio 2020, n. 15369).
In tal senso il giudice tributario, per verificare se il contribuente sia consapevole dell’inserimento dell’operazione in un’evasione di imposta, “non può riferirsi alle sole risultanze del processo penale, ancorché riguardanti i medesimi fatti, ma, nell’esercizio dei suoi poteri, è tenuto a valutare tali circostanze sulla base del complessivo materiale probatorio acquisito nel giudizio tributario, non potendo attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile su reati tributari alcuna automatica autorità di cosa giudicata, attesa l’autonomia dei due giudizi, la diversità dei mezzi di prova acquisibili e dei criteri di valutazione” (Cass., 4 dicembre 2020, n. 27814).
Per quanto invece attiene alle operazioni oggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria che contesti al contribuente l’indebita detrazione, ha come unico onere quello di provare che l’operazione non è mai stata realizzata, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente (atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo).
Così, una volta che l’Amministrazione finanziaria abbia dimostrato l’oggettiva inesistenza delle operazioni, “spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia” (Cass., 13 marzo 2013, n. 6229; 14 settembre 2016, n. 18118; 18 ottobre 2021, n. 28628).
La Corte, sottolineata l’autonomia tra i due giudizi (penale e tributario) ed evidenziati gli oneri probatori in materia, ha dunque respinto il ricorso dell’Ufficio confermando come il ragionamento e le conclusioni raggiunte dalla Commissione regionale fossero coerenti con i suesposti principi di diritto. In aggiunta i giudici di legittimità, come già rilevato dal giudice di seconde cure, hanno rimarcato che, oltre al decreto di rinvio, l’Amministrazione finanziaria non si fosse premurata di allegare altro, neppure il processo verbale di costatazione, l’esito dei contraddittori con gli indagati, oppure altri ulteriori documenti.
(commento a cura del Dott. Lorenzo Tortelli)