Nuovo onere probatorio nel processo tributario (art. 7 comma 5-bis D.Lgs 546/92) : nessun rilievo in caso di presunzioni legali, secondo la Cassazione. L’onere della prova contraria resta a carico del contribuente.

by AdminStudio

“In materia di giudizio tributario, il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’ art. 6 della l. n. 130 del 2022, secondo cui il giudice deve valutare la prova “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, non si pone in contrasto con la persistente applicabilità delle presunzioni legali che, nella normativa tributaria sostanziale, impongano al contribuente l’onere della prova contraria”.

Il principio di diritto affermato con ordinanza n. 2746 del 30 gennaio 2024 dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Cirillo, Rel. Cataldi) fa indubbiamente riflettere sulla efficacia di una norma che già in partenza appariva più programmatica che realmente operativa.

In una vicenda che origina da un accertamento sintetico la Corte rammenta che è stato da tempo chiarito che la prova contraria del possesso di redditi non imponibili che il contribuente deve fornire, per superare la ricostruzione presuntiva e sintetica del reddito operata dall’Amministrazione, non può limitarsi alla dimostrazione della mera disponibilità di ulteriori redditi o del semplice transito della disponibilità economica nella sfera patrimoniale dello stesso contribuente. Infatti, pur non essendo esplicitamente richiesta la prova che detti ulteriori redditi siano stati utilizzati per coprire le spese necessarie, il contribuente è comunque “onerato della prova in merito a circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere”, poiché è la norma stessa a chiedere qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte), in tal senso dovendosi leggere lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) dell’entità di tali eventuali ulteriori redditi e della durata del relativo possesso, previsione che ha l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di tali redditi, per consentirne la riferibilità alla maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente.

Né, peraltro, la prova documentale richiesta dalla norma in esame, sempre secondo i Giudici di Legittimità, risulta particolarmente onerosa, potendo essere fornita, ad esempio, con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, idonei a dimostrare la durata del possesso dei redditi in esame (Cass. 28/12/2022, n. 37985; Cass. 14/06/2022, n. 19082; Cass. 20/04/2022, n. 12600; Cass. 24/05/2018, n. 12889; Cass. 16/05/2017, n. 12207; Cass. 26/01/2016, n. 1332; Cass. 18/04/2014, n. 8995).

Ciò premesso la Corte afferma che “non è destinato ad incidere sulla descritta distribuzione, nel caso di specie, dell’onere della prova, il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’ art. 6 della legge n. 130 del 2022, secondo il quale ” L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.

Infatti, già la sola precisazione, nel secondo periodo del ridetto comma 5-bis, che la fondatezza della prova deve essere valutata “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, salvaguarda le presunzioni legali, quale quella in materia di accertamento sintetico, previste dalla normativa sostanziale tributaria, la cui persistenza non può quindi ritenersi in contrasto con disposizioni sull’onere della prova contenute nel primo e nel terzo periodo dello stesso comma, quale che sia la portata di queste ultime rispetto alla disciplina già evincibile dall’ applicazione dell’ art. 2697 cod. civ.”

Si ricorda al riguardo anche un precedente in cui la stessa Corte di Cassazione aveva già affermato che «il comma 5 bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992, introdotto con l’articolo 6 della L. n. 130 del 2022, ha semplicemente ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio. Pertanto, la nuova formulazione legislativa non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria un ruolo centrale» (cfr. Cass. civ., Sez. V, Ordinanza, 27/10/2022, n. 31878).

Dunque l’inserimento all’ultima ora della norma nel testo della riforma del processo recata dalla Legge 130/2022 non ha valore nei confronti delle presunzioni legali. Con ciò sembrerebbe smentito chi aveva ritenuto che l’inserimento della nuova regola fosse un tentativo di ridurre il ricorso alle presunzioni in ambito di accertamenti fiscali.

In realtà per adesso la questione è limitata alle presunzioni legali. Per quanto riguarda le presunzioni semplici esse rientreranno comunque tra i mezzi di prova, ma forse occorrerà un maggior rigore rispetto al passato per valutare gli elementi di gravità, precisione e concordanza così come nelle catene presuntive oggi fin troppo utilizzate. Altrimenti dovremmo concludere che l’inserimento di una norma di Legge (seppur non scritta benissimo) in un testo importante che disciplina il processo tributario è inutile, finanche in un settore regolato dalla riserva di Legge di cui all’art. 23 Costituzione. E e non sarebbe una bella conclusione.

 

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