Incidente di percorso della Sezione Tributaria sulla prova delle cessioni intra UE.

by Luca Mariotti

La questione della prova delle cessioni intracomunitarie a carico del contribuente sta veramente prendendo una piega da vero e proprio “nonsense”. Ciò con il pur doveroso rispetto verso i Giudici di Legittimità che tuttavia, nella specifica vicenda, si stanno progressivamente staccando da considerazioni pratiche e reali. Almeno se sentenze come quella di cui trattiamo oggi si confermeranno.

E’ noto infatti che un discusso orientamento della Suprema Corte attribuisce l’onere probatorio del trasferimento del bene in altro stato UE al contribuente. Perché sarebbe a suo vantaggio dimostrare che ha diritto ad una “agevolazione”, che evidentemente agevolazione non è, essendo assolutamente la stessa cosa per il venditore addebitare l’iva al cliente e versarla oppure non addebitarla affatto. Ma non si può evidentemente chiedere la prova al cessionario estero, e allora…..

Venendo alla prova è facile fornirla se si possiede o si è in grado di procurarsi il cosiddetto “CMR”. Ovvero il documento che viene compilato dai vettori che aderiscono alla “Convention des Marchandises par Route”. Esso è storicamente il documento comprovante il trasporto, fin dai tempi delle dogane in ambito europeo. Ma è comunque un documento compilato da privati.

Quando a) il vettore non compila tale documento, non obbligatorio, oppure b) la merce viene ceduta franco magazzino con trasporto a carico dell’acquirente, non c’è modo di avere il CMR.

Ed allora, visto che in ambito europeo le dogane non ci sono più da 25 anni, si accetta comunemente una dichiarazione del cessionario che attesta l’avvenuto trasporto o una dichiarazione del vettore non convenzionato.

Ma tale documento pare non bastare in una singolare ordinanza della Corte di Cassazione che ci è stata segnalata quest’oggi. Si tratta della n. 9717 del 16 aprile 2018 della V Sezione (Pres. Bruschetta, Rel. Caiazzo).

I Giudici accolgono al riguardo una eccezione dell’Agenzia delle Entrate che ritiene, nel caso specifico, le cessioni intra non documentate da alcun elemento proveniente da pubbliche amministrazioni.

Seguiamo il ragionamento:

“In particolare, nella fattispecie, in mancanza dell’allegazione dei documenti di consegna CMR, la Ctr ha ritenuto che il contribuente avesse dimostrato il pagamento attraverso la documentazione bancaria e le dichiarazioni dei terzi in ordine al ricevimento della merce. Tale rilievo contrasta però con l’orientamento consolidato della Corte secondo cui in tema di recupero di iva per esportazioni al di fuori dei confini comunitari non dimostrate, la destinazione della merce all’esportazione, nelle cessioni di cui al del d.p.r. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. a), deve essere provata dalla documentazione doganale. In assenza di tale documentazione, non potendosi addebitare all’esportatore la mancata esibizione di un documento di cui egli non ha la disponibilità, tale prova può, peraltro, essere fornita con ogni mezzo, purché abbia il requisito della certezza ed incontrovertibilità, quale l’attestazione di pubbliche amministrazioni del Paese di destinazione dell’avvenuta presentazione delle merci in dogana, come è desumibile, ai sensi del d.p.r. n. 43 del 1973, art. 346, dalla stessa disciplina doganale applicabile. Ne consegue l’inidoneità, ai predetti fini, di documenti di origine privata, come le fatture emesse e la documentazione bancaria attestante il relativo, avvenuto pagamento (Cass.,n.22233/2011; 21809/2012; 20487/2013).

Tale principio, affermato riguardo a cessioni extracomunitarie, è certo applicabile anche alle cessioni intracomunitarie, come nel caso concreto (Cass., n. 3603/09) in cui la Ctr ha attribuito rilevanza esclusivamente a documentazione di origine privata in ordine alla prova della avvenuta cessione intracomunitaria della merce, in assenza di altra documentazione agevolmente utilizzabile dal contribuente, quale il modello CMR (che presenta il contenuto di una lettera di vettura contenente i dati della spedizione e le firme dei soggetti coinvolti nell’operazione, cioè cedente, cessionario e vettore) e i contratti commerciali”.

Insomma i Giudici pretenderebbero l’attestazione di una pubblica amministrazione in un contesto nel quale un imprenditore di qualunque Paese europeo può acquistare merce in Europa e portarla nel proprio stato senza che nessuna pubblica amministrazione, appunto, controlli alcunché.

Sarebbe forse da chiedersi se sia chiaro a tutti che le dogane in Europa non esistono…..

Sinceramente fatichiamo a comprendere il senso di queste argomentazioni, niente affatto in linea con i criteri della Corte UE che lascia, è vero, autonomia ai singoli stati ma limita il recupero IVA in capo al cedente ai casi di sospetta frode e comunque ai casi in cui si faccia un corretto uso del principio di proporzionalità, non imponendo all’imprenditore di fare il doganiere senza dogane.

Va ricordato che la stessa Commissione europea ha approvato la proposta di regolamento del 4 ottobre 2017 emanata dal “Consiglio”, volta a modificare il regolamento n. 282/2011 concernente le “esenzioni IVA” relative alle operazioni di scambio di beni intracomunitari. Forse il problema verrà risolto, almeno speriamo, da norme sovranazionali in materia di tributi armonizzati, che ci auguriamo  riportino un minimo di ragionevolezza.

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