Atti firmati da dirigenti illegittimi a seguito della Sentenza della Corte Costituzionale 37/2015. Confermata la consolidata lettura della Sezione Tributaria in relazione alla necessità di una specifica eccezione fin dall’inizio del giudizio

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“La nullità dell’avviso di accertamento, siccome sottoscritto da soggetto privo della relativa legittimazione (nella specie, in conseguenza degli effetti della sentenza n. 37 del 2015 della Corte Costituzionale) non è rilevabile d’ufficio, ma va eccepita fin dall’introduzione del giudizio di primo grado. Ne consegue che, non solo la relativa questione non può essere sollevata per la prima volta nelle successive fasi di giudizio, ma essa deve considerarsi altresì inammissibile ove introdotta, in prime cure, solamente con le memorie depositate ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992 art. 32″.

Dobbiamo partire dal principio di diritto enunciato nella Ordinanza 9 marzo 2023, n. 6991 dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, (Pres. Nonno, Rel. Chiesi), che ribadisce un orientamento peraltro datato e consolidato, per fare qualche riflessione, che non ci stancheremo mai di ribadire ad onta della predetta autorevole lettura.

La vicenda della sentenza n. 37 del 2015 della Corte Costituzionale, assai nota, parte dalla ordinanza del 26 novembre 2013 (r.o. n. 9 del 2014), con la quale il Consiglio di Stato, sezione quarta giurisdizionale, aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44.

La disposizione citata, fatti salvi i limiti previsti dalla legislazione vigente per le assunzioni nel pubblico impiego, autorizzava l’Agenzia delle dogane, l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia del territorio ad espletare procedure concorsuali, da completare entro il 31 dicembre 2013, per la copertura delle posizioni dirigenziali vacanti, secondo le modalità di cui all’art. 1, comma 530, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2007), e all’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248. Tale autorizzazione veniva normativamente posta in relazione «all’esigenza urgente e inderogabile di assicurare la funzionalità operativa delle proprie strutture, volta a garantire una efficace attuazione delle misure di contrasto all’evasione», disposte da altri commi dello stesso art. 8 del d.l. n. 16 del 2012, come convertito.

La disposizione prevedeva, inoltre, che «[n]elle more dell’espletamento di dette procedure l’Agenzia delle dogane, l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia del territorio, salvi gli incarichi già affidati, potranno attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso». Dopo aver stabilito che gli incarichi in questione venissero attribuiti «con apposita procedura selettiva applicando l’articolo 19, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», e che «[a]i funzionari cui è conferito l’incarico compete lo stesso trattamento economico dei dirigenti», la norma precisa che «[a] seguito dell’assunzione dei vincitori delle procedure concorsuali di cui al presente comma, l’Agenzia delle dogane, l’Agenzia delle entrate e l’Agenzia del territorio non potranno attribuire nuovi incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165».

Ebbene la Sentenza n. 35 del 2015 della Corte Costituzionale, depositata il 17/03/2015; e pubblicata in G. U. 25/03/2015 n. 12 ha stabilito che: “In definitiva, l’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, come convertito, ha contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica. Per questo, ne va dichiarata l’illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 51 e 97 Cost.”

Questa “strage” di Principi costituzionali, constatata dalla Consulta, ha espunto la norma dall’ordinamento. Con efficacia ex tunc, come sappiamo bene.

Dunque la norma è come inesistente e la sua disapplicazione appare doverosa.

Come noto infatti, in base al combinato disposto dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 L. 11 marzo 1953 n. 87, la pronuncia d’illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza del Giudice delle leggi, che essa possa più essere comunque applicata ai rapporti giuridici in relazione ai quali risulti rilevante.

L’efficacia retroattiva delle pronunce d’illegittimità costituzionale, prevista in via generale dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 3 incontra un limite nell’eventuale consolidamento delle situazioni giuridiche nascenti dall’applicazione della norma dichiarata incostituzionale, in conseguenza dell’avvenuto esaurimento del relativo rapporto, potendosi legittimamente considerare esauriti, peraltro, i soli rapporti rispetto ai quali si sia formato il giudicato o si sia verificato un altro evento cui l’ordinamento collega la definizione del rapporto medesimo, ovvero si siano verificate preclusioni processuali o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità.

In quest’ultimo ambito si colloca l’orientamento della Suprema Corte ormai risalente e al quale si richiama l’Ordinanza. Essendo il giudizio tributario tipicamente di impugnazione la mancata eccezione sollevata in primo grado sulla questione la rende non eccepibile nei gradi successivi. Nel caso all’attenzione della Corte essa era stata sollevata per la prima volta nelle memorie in appello del contribuente.

Rimane il fatto che oggi ritenendo valido l’atto impositivo si poggia la validità dello stesso proprio su una disposizione incostituzionale.

E, malgrado si tratti ormai di un filone giurisprudenziale risalente e consolidato, qualche dubbio pare lecito.

 

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