Anche per gli accertamenti analitico-induttivi, così come per quelli induttivi puri, è necessario riconoscere una percentuale di costi rispetto ai maggiori ricavi accertati

by admintrib

Già molto pubblicizzata a livello mediatico l’Ordinanza 23 febbraio 2023, n. 5586 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, con la quale si dà subito una interessante lettura della recentissima pronuncia della Corte costituzionale 31 gennaio 2023, n. 10 che i nostri lettori trovano commentata nel nuovo numero della rivista con interessanti riflessioni da parte dell’Avv. Barbara Ianniello.

La Corte ricorda al riguardo che la Commissione tributaria provinciale di Arezzo, con ordinanza del 26 aprile 2021, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, n. 2), del D.P.R. n. 600 del 1973, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario. In particolare, la CTP assumeva che, in mancanza di giustificazione, un prelievo dal conto può essere attribuito, altrettanto ragionevolmente, a costi d’impresa quanto a spese personali, specie nell’ipotesi di piccoli imprenditori individuali che abbiano optato per il regime di contabilità semplificata. Sosteneva che la giurisprudenza di legittimità non consente una deduzione automatica dei costi presuntivamente sostenuti per conseguire i ricavi ottenuti grazie alle somme prelevate senza giustificazione.

La Corte costituzionale, con sentenza 31 gennaio 2023, n. 10, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale essendo possibile un’interpretazione adeguatrice della norma.

Ha osservato che, in caso di accertamento induttivo in senso stretto (o “puro”), l’impossibilità di una ricostruzione complessiva della contabilità (o, comunque, la generalizzata inattendibilità della stessa) ha da tempo indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare il principio – cui ha fatto riferimento la stessa Corte nella sentenza n. 225 del 2005 – secondo il quale deve riconoscersi la deduzione dei costi di produzione, determinata anche in misura percentuale forfettaria, precisando che è lo stesso ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi. L’accertamento analitico-contabile (che aveva ha originato l’incidente di legittimità costituzionale) si caratterizza – invece – per la rettifica di singole componenti del reddito dichiarato e può derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture contabili (il bilancio, in particolare) e dall’esame della documentazione posta a fondamento della contabilità, come le risultanze delle movimentazioni bancarie. Presupposto dell’utilizzo del metodo analitico o “misto” è l’attendibilità complessiva della contabilità, che consente la rettifica di singole componenti reddituali: in sostanza, la determinazione del reddito è compiuta nell’ambito delle risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva di singoli elementi attivi o passivi, dei quali risulta provata aliunde la mancanza o l’inesattezza. Proprio la presenza di una contabilità generalmente attendibile, e una ripresa a tassazione che si realizza mediante rettifiche di singole “poste” della stessa, implica che ai fini della deduzione dei costi, operi in generale la regola ritraibile dall’art. 109 t.u.i.r., in forza della quale, se gli stessi non sono presenti nel conto economico, possono essere dedotti solo se risultano da elementi certi e precisi, dei quali l’onere della prova è a carico del contribuente.

Da tale sistema, secondo il giudice delle leggi, deriverebbero esiti irragionevoli perché finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvale chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile o ha posto in essere gravi condotte, quale l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Pertanto, la disposizione censurata intanto si sottrae alle censure di illegittimità costituzionale in quanto si interpreti nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi “occulti”, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la “incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati” (Corte Cost. n. 225 del 2005).

L’Agenzia delle entrate, con circolare n. 32/E/2006 (capitolo quinto, punto 5.5), aveva già affermato, con riguardo agli accertamenti induttivi “puri”, che “il riconoscimento di costi deve essere livellato – anche in misura percentualistica – in ragione dei maggiori ricavi accertati sulla base del meccanismo presuntivo” di cui all’art. 32, comma 1, n. 2), del D.P.R. n. 600 del 1973.

Diverse erano state finora le prese di posizione della prassi sugli accertamenti analitico-induttivi.

On line si trova ancora con facilità un documento, tratto dalla rivista ufficiale dell’Agenzia delle Entrate (Fisco Oggi del 20 ottobre 2020) ben spiega il precedente consolidato orientamento della Cassazione e quello dell’Agenzia delle Entrate.

L’una e l’altra concordano sul fatto che la norma sull’accertamento analitico e quella sull’accertamento induttivo sono diverse relativamente al rapporto con la contabilità.

Ovvero, se si destituisce di fondamento la contabilità (accertamento induttivo) si ricostruiscono i ricavi con ogni metodo possibile, tenendo conto, sempre ricorrendo a qualunque metodologia, comprese presunzioni semplici e ai dati e alle noticie comunque raccolti, di una aliquota di costi (per evidente derivazione logica).

Ma se si parte dalla contabilità (articolo 39 primo comma) e se ne riconosce la fondatezza non si riteneva avere alcun senso nè alcuna coerenza giuridica ricostruire una percentuale di costi. Ciò violerebbe, tra l’altro, l’articolo 2709 del Codice Civile, giacché è vero che “I libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore” (primo comma). Ma è vero anche che “Tuttavia chi vuol trarne vantaggio non può scinderne il contenuto” (secondo comma dell’articolo 2709 del Codice Civile).

La svolta interpretativa della giurisprundenza di Legittimità è dunque rilevante.

Per la Corte, a seguito della richiamata pronuncia della Corte costituzionale, il principio per cui una percentuale di costi va riconosciuta deve ritenersi estensibile anche al caso di utilizzo del metodo analitico o “misto”.

Il motivo di ricorso viene quindi (inaspettatamente) accolto, proprio in virtù dei recentissimi orientamenti del Giudice delle Leggi.

 

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