L’ordinanza n. 1671 del 16 gennaio 2024 dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Federici, Rel. Leuzzi) decide su un ricorso di una società relativo alla restituzione dei costi della fideiussione per ottenere il rimborso di imposte ex art. 8 comma 4 Legge 212/2000, accogliendolo.
Riguardo l’applicazione, in relazione alla domanda di restituzione, dell’art. 21, co. 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, la CTR aveva ritenuto che l’istanza di rimborso dei costi di fideiussione fosse suscettibile d’essere tempestivamente formulata entro due anni dal sostenimento dei costi stessi, anziché da quello di maturazione del presupposto per la restituzione.
La Corte rammenta che l’art. 21, co. 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, prevede che “la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.
Nella specie, detto presupposto, che fa precettivamente premio sul pagamento del costo della fideiussione, si è concretizzato nel momento in cui l’eccedenza d’imposta si è cristallizzata, tanto da divenire incontroversa. È in quel frangente che la garanzia funzionale a consentire la compensazione “accelerata” dei crediti IVA nel recinto della compagine di gruppo ha cessato di assolvere alla sua funzione, tanto da palesarsi non più suscettibile di escussione.
Infatti secondo i Giudici di Legittimità, nell’ambito della liquidazione IVA di gruppo, la prestazione della garanzia entro il termine di presentazione della relativa dichiarazione annuale IVA rappresenta elemento costitutivo di perfezionamento delle compensazioni IVA infragruppo. Sotto il profilo procedurale, l’articolo 6 del DM 13 dicembre 1979, come modificato dal D.M. 13 febbraio 2017, dispone al terzo comma che, per le eccedenze di credito risultanti dalla dichiarazione annuale dell’ente o società controllante ovvero delle società controllate, compensate in tutto o in parte con somme che avrebbero dovuto essere versate dalle altre società controllate o dall’ente o società controllante, si applicano le disposizioni dei commi 3, 4, 5 e 6 dell’art. 38-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.
Fisiologicamente, in tanto il costo della fideiussione è rimborsabile, e come tale richiedibile, in quanto constino come non revocabili in dubbio, tanto l’esistenza del credito trasferito (o dei crediti trasferiti), quanto di quello correlato agli oneri sopportati per l’accesso al meccanismo dell’IVA di gruppo.
Testualmente la Corte afferma:
“Nel momento in cui viene meno l’opportunità in capo all’Ufficio di procedere ad una verifica di merito sulla spettanza del credito viene in apice il presupposto per la restituzione dell’importo degli oneri della fideiussione funzionale a beneficiare del regime dell’IVA di gruppo, presupposto che ai sensi dell’art. 21, co. 2, D.Lgs. n. 546 del 1992 sorregge e giustifica la richiesta di sostituzione.
Antergare la decorrenza del termine finalizzato alla formulazione di tale richiesta al momento di sostenimento del costo della fideiussione postulerebbe la circostanza singolare per cui la richiesta andrebbe formulata quando la garanzia sarebbe in astratto ancora passibile d’essere escussa”.
Inoltre viene ricordato, in relazione alla modalità di erogazione del rimborso il seguente principio di diritto:
“In tema di IVA, il diritto al rimborso dei costi relativi alla garanzia fideiussoria, chiesta dal contribuente per ottenere la sospensione, la rateizzazione o il rimborso dei tributi, ha portata generale ed è indipendente dalla fisionomia della controversia tributaria, stante l’esigenza ad essa sottesa di preservare l’integrità patrimoniale dei contribuenti, in caso di infondatezza della pretesa impositiva o di legittimità della pretesa di rimborso di somme dovute, che una diversa interpretazione frustrerebbe, oltre a porsi in contrasto con il diritto unionale” (Cass. n. 5508 del 2020, Cass. n. 16409 del 2015)”
L’art. 8, comma 4, della L. n. 212 del 2000, che impone all’amministrazione finanziaria di rimborsare il costo delle garanzie fideiussorie richieste dal contribuente per ottenere la sospensione del pagamento o la rateizzazione o il rimborso dei tributi, comprende i costi di tutte le garanzie che il contribuente ha richiesto: ciò perché l’espressione “ha dovuto richiedere” si deve intendere non nel senso dell’esistenza di un ipotetico obbligo normativo in tal senso, bensì con riferimento alla necessita (intesa come onere) della richiesta della garanzia in rapporto allo scopo perseguito (ottenere la sospensione del pagamento di tributi o la rateizzazione o il rimborso). La portata generale del diritto al rimborso dei costi per le polizze fideiussorie indipendentemente dalla fisionomia della controversia tributaria è principio consolidato nella giurisprudenza nomofilattica, sia che la stessa debba individuarsi con riferimento al credito d’imposta vantato dal contribuente, sia che debba invece individuarsi, come nella specie, con riferimento alla imposta o maggiore imposta pretesa dall’Amministrazione finanziaria in seguito all’avvenuto rimborso del credito IVA (Cass. n. 19751 del 2013).
Una diversa opzione in effetti frustrerebbe l’esigenza presidiata dalla disposizione di preservare l’integrità patrimoniale dei contribuenti, a fronte di una pretesa impositiva infondata o di una legittima pretesa al rimborso di somme dovute, e, per conseguenza, rischierebbe di entrare in frizione col diritto unionale. Ciò vale anche in ragione del consolidato orientamento della Corte di giustizia, in base al quale gli Stati membri indubbiamente dispongono di una certa libertà quanto alla determinazione delle modalità di rimborso dell’eccedenza di IVA, purché, però, il sistema di rimborso adottato non faccia correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo (Corte giust. 28 febbraio 2018, causa C-387/16, punto 24; 6 luglio 2017, causa C-254/16, Glencore Agriculture Hungary, punto 20; 12 maggio 2011, causa C-107/10, Enel Maritsa Iztok 3, punto 33). 3.2.- Il sistema italiano dei rimborsi iva, d’altronde, ha indotto la Commissione europea a promuovere nei confronti dell’Italia una procedura d’infrazione (la n. 2013/4080).
L’art. 8, comma 4, della legge n. 212 del 2000 (cd. statuto del contribuente), che impone all’Amministrazione finanziaria di rimborsare il costo delle fideiussioni richieste dal contribuente per ottenere la sospensione del pagamento o la rateizzazione o il rimborso dei tributi, ha natura immediatamente precettiva, attribuendo al contribuente un diritto soggettivo perfetto a tutela della sua integrità patrimoniale, a prescindere dell’emanazione dei decreti ministeriali d’attuazione, e ricomprende anche i costi delle fideiussioni stipulate prima della sua entrata in vigore.
Infine viene aggiunto che “Alla domanda di rimborso o restituzione del credito maturato dal contribuente si applica, ove manchi una disciplina specifica, la norma generale di cui all’art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, che prevede un termine biennale di decadenza per la presentazione dell’istanza, il cui decorso non esclude, tuttavia, l’operare del termine decennale di prescrizione ex art. 2946 c.c. che decorre, una volta maturato il silenzio-rifiuto su detta istanza, ossia dopo novanta giorni dal deposito senza che sia intervenuta una pronuncia dell’Ufficio su di essa” (Cass. n. 4377 del 2019).
Dunque, alla domanda di rimborso o restituzione del credito maturato dal contribuente si applica, in mancanza di una disciplina specifica posta dalla legislazione speciale in materia, la norma generale, di cui all’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, che non esclude tuttavia, una volta maturato il silenzio-rifiuto, la decorrenza del termine decennale di prescrizione ex art. 2946 c.c. Ne consegue che il decorso della prescrizione, che comincia solo se e quando il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.), è sospeso durante il tempo di formazione del/silenzio-rifiuto a norma dell’art. 21, D.Lgs. n. 546 del 1992, laddove la richiesta al fisco di un rimborso s’intende respinta, a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi novanta giorni dalla data della sua presentazione, senza che l’ufficio si sia pronunciato. Il principio, affermato anche in altre sentenze citate dalla CTR (Cass. n. n. 16477 del 2004), è, quindi, quello per cui, in caso di silenzio-rifiuto, il termine di prescrizione decorre da quando quest’ultimo si forma, cioè non dalla data dell’istanza, ma alla scadenza dei novanta giorni successivi.