Sospensione necessaria del giudizio tributario in caso di accertamento al socio per ristretta base partecipativa con la causa della società ancora pendente. Dubbi evidenti sulle presunzioni a catena

by admintrib

“Con orientamento ormai consolidato è stato affermato che la sospensione necessaria del processo ex art. 295 cod. proc. civ. è applicabile anche al processo tributario qualora risultino pendenti, davanti a giudici diversi, procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità tale che la definizione dell’uno costituisce indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro, nel senso che l’accertamento dell’antecedente venga postulato con effetto di giudicato, così escludendo il pericolo di conflitto di giudicati (Cass., 8 febbraio 2012, n. 1865; 30 novembre 2012, n. 21396; 20 settembre 2017, n. 21765)”.

Nel caso affrontato dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione con l’ordinanza 17 maggio 2022, n. 15682 (Pres. Sorrentino, Rel. Federici) in particolare si afferma che i Giudici regionali non si sono attenuti alla regola della sospensione necessaria poiché hanno deciso sull’imputazione di utili per “ristretta base” al socio senza che vi fosse una sentenza definitiva sulla società.

Per la Corte “l’accertamento tributario nei confronti di una società di capitali a ristretta partecipazione, in ipotesi come quelle riferibili alla contestazione di utili extracontabili, costituisce un indispensabile antecedente logico-giuridico dell’accertamento nei confronti dei soci, in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano, si è anche affermato che, non ricorrendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario, come invece accade per le società di persone, in ordine ai rapporti tra i rispettivi processi, quello relativo al maggior reddito accertato in capo al socio deve essere sospeso ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., applicabile nel giudizio tributario in forza del generale richiamo dell’art. 1 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546” (Cass., 31 gennaio 2011, n. 2214).

La sospensione pertanto, per i Giudici di Legittimità s’impone ogni qual volta vi sia pendenza separata di procedimenti relativi all’accertamento del maggior reddito contestato ad una società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio, in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società (Cass., 31 ottobre 2014, n. 23323; cfr. anche 7 marzo 2016, n. 4485).

E ciò riguarda non solo ipotesi di controversie su contestazioni di utili extracontabili, ma più in generale tutti i casi di contestazioni rivolte alla compagine sociale, che siano relativi ai maggiori redditi derivanti da ricavi non dichiarati o da costi non sostenuti.

Nel caso specifico, nella sentenza impugnata il giudice regionale ha ritenuto «di poter rideterminare il reddito imputabile all’appellante sulla scorta di quanto deciso per quest’ultima [la società]». Sennonché, così decidendo, non si è avveduto che il maggior imponibile in capo alla società era stato riconosciuto in un separato giudizio, la cui decisione tuttavia non era passata ancora in giudicato. In tal modo ha riconosciuto un maggior reddito imponibile in capo al contribuente, riconducibile alla distribuzione, pro quota, degli utili extracontabili accertati dall’Agenzia delle entrate in capo alla società, senza che su quest’ultimo punto il contenzioso, introdotto dalla società medesima, fosse stato definito

Un’ultima incidentale annotazione.

La questione posta dal contribuente in relazione alla possibile catena di presunzioni (prima sul reddito della società, poi sulla distribuzione dello stesso) riporta in auge una logica seguita da tempo dalla Corte, con la quale non siamo affatto d’accordo.

Si ricorda al riguardo come sia stato affermato che “la prova inferenziale, che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto “noto” attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, il quale cessa pertanto di essere tale per divenire noto, ciò che risolve l’equivoco logico che si cela nel divieto di doppie presunzioni” (Cass., 16 giugno 2017, n. 15003; 7 dicembre 2020, n. 27982).

Pertanto, per la Corte, si è chiarito, “ben può il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea, per essere a sua volta adeguata, a fondare l’accertamento del fatto ignoto” (Cass., 1 agosto 2019, n. 20748).

Vorremmo allora sommessamente ricordare che nelle regole civilistiche sulle presunzioni non vi sono due categorie, come la Corte afferma, con riferimento al fatto “noto” ed “ignorato”. Ce ne sono tre. Quello “noto”, quello “ignoto” e quello “derivato per via logica dal fatto noto”. Quest’ultimo non diventa mai “noto”. Casomai diventa “provato per presunzione”. Se fosse noto non ci sarebbe stato bisogno di ricostruirlo per via inferenziale.

Così ragionando, a nostro avviso, si rimane in linea col Codice Civile.

Altrimenti si compie una operazione sul genere “Ego te baptizo piscem” del parroco goloso di bistecca….

 

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