Sanzioni tributarie: per la Sezione Tributaria il principio di forza maggiore diviene il principio del “cornuto e mazziato”

by admintrib

“In tema di sanzioni tributarie, posto che il diritto sanzionatorio ha natura punitiva, la forza maggiore va intesa secondo la sua accezione penalistica, e va quindi riferita a un avvenimento imponderabile che annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti, elidendo il requisito della coscienza e volontarietà della condotta; con la conseguenza che la crisi di liquidità derivante dal reiterato, per quando grave, inadempimento di pubbliche amministrazioni debitrici, perdipiù prevedibile, non risponde a tale nozione”.

Questo il principio di diritto con il quale si chiude la motivazione della Sentenza 6 aprile 2022, n. 11111 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Virgilio, Rel. Perrino).

Per essere ancor più chiari lo Stato ha diritto ad esigere da un contribuente a cui il mancato pagamento di commesse pubbliche ha provocato una crisi di liquidità non solo il pagamento delle imposte ma anche quello delle sanzioni. E ciò malgrado l’art. 6, comma 5 del decreto legislativo n. 472/1997 in materia di cause di non punibilità, esoneri il contribuente dal pagamento delle sanzioni se l’inadempimento è connesso a forza maggiore. Ma, appunto “la crisi di liquidità derivante dal reiterato, per quando grave, inadempimento di pubbliche amministrazioni debitrici, .., non risponde a tale nozione”.

Nel ragionamento della Corte alla base di questa poco condivisibile conclusione viene ricordato come la giurisprudenza più recente (cfr. anche Cass. nn. 17027/21 e 39548/21) mutui la nozione di forza maggiore rilevante da quella elaborata dalla giurisprudenza unionale, che definisce, nelle materie doganale e delle accise. Seguono alcuni riferimenti che sembrano per la verità non perfettamente centrati allo specifico caso.

Viene poi segnalato un altro indirizzo (espresso da Cass. nn. 2139/20 e 15415/21), che affronta, invece, la rilevanza della forza maggiore nel quadro del diritto sanzionatorio e applica in materia tributaria il principio sancito in generale dall’art. 3 della L. n. 689/1981, in base al quale, ai fini dell’applicazione delle sanzioni, sono sufficienti la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, rilevante, come esimente, solo se l’agente sia incorso in un errore inevitabile, per ignoranza incolpevole dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza.

Il riferimento più centrato sembra invece quello di derivazione penalistica. Infatti in materia tributaria il legislatore ha dato sistemazione alla materia sanzionatoria con i decreti legislativi nn. 471, 472 e 473 del 1997, evidenziandone la natura punitiva (come sottolineato dall’art. 133, lett. q) della legge delega n. 662/96). Coerentemente la giurisprudenza meno recente della Corte applicava, in tema di sanzioni amministrative, i principi di matrice penalistica. In questo contesto l’esimente prefigura allora la situazione di un soggetto assolutamente privo della possibilità di sottrarsi a una forza per lui irresistibile (in proposito si dice che il soggetto non agit, sed agitur), come emerge, da un lato, dall’art. 46 c.p., il quale enuclea un’ipotesi speciale di forza maggiore disciplinando il costringimento fisico ed esplicitandone i caratteri e, dall’altro, dall’art. 54 c.p., il quale regola l’ipotesi diversa in cui la volontà dell’autore sia coartata in modo non assoluto bensì relativo, residuando in capo al soggetto un margine di scelta.

Ora, questa lunga dissertazione ed i riferimenti a diverse correnti interpretative non sembrano portare ricchezza di argomentazioni, chiudendosi sostanzialmente con queste brevi indicazioni di derivazione penalistica, più affermate che derivate.

Rimane il fatto che siamo in un ambito economico. Ove il mancato pagamento di un tributo, senza neppure “scomodare” la capacità contributiva e la sua effettività (sic…) dipende dai mezzi finanziari a disposizione. Se lo Stato non paga l’azienda c’è da chiedersi allora come l’imprenditore possa “sottrarsi a una forza per lui irresistibile” senza i quattrini per pagare le imposte allo stesso Stato che, cambiata la giacca del debitore con quella del creditore, lo sanziona.

Addirittura ironico nei confronti del contribuente turlupinato dalla Pubblica Amministrazione suona il passaggio della motivazione in cui si legge “la stessa società dà conto in controricorso dell’«immagine preoccupante della situazione italiana», sin dal 2008, allorquando «…i tempi di pagamento delle amministrazioni pubbliche oscillano in un range compreso fra un minimo di 92 giorni e un massimo di 664 giorni, oltre due anni», fornendo quindi elementi che escludono quantomeno l’imprevedibilità”

Ci sia consentita allora una battuta, pur nel massimo rispetto delle argomentazioni della Suprema Corte. In questa lettura il principio di garanzia che si fonda sull’esimente legata alla forza maggiore diventa quello del “cornuto e mazziato”, cioè della giustificazione del fatto che chi, sicuramente in modo involontario, ha subito il danno del mancato pagamento oggi si veda anche arrivare la beffa della sanzione.

 

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