Riqualificazione dell’atto ai fini del registro limitata agli elementi desumibili dall’atto stesso. Il registro è “imposta d’atto” dunque gli elementi extratestuali vanno considerati solo se ciò è espressamente previsto dalla Legge

by admintrib

Nella Sentenza 14 dicembre 2021, n. 40042 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Chindemi, Rel. Dell’Orfano) si apprezza la ricchezza delle motivazioni e dei riferimenti alla giurisprudenza, sempre approfondita e mai citata tout court.

La questione verte sulla applicazione in chiave antielusiva dell’articolo 20 del testo unico di registro, con riferimento ad un insieme di operazioni con cui si riqualificavano come cessione d’azienda, conseguentemente liquidando, a fronte dell’imposta fissa corrisposta, la maggiore imposta di registro, una serie di operazioni di riorganizzazione straordinaria mediante conferimento di ramo di azienda e successiva cessione delle quote di partecipazione.

Correttamente si ricorda che con la recente sentenza n. 158 del 21 luglio 2020 la Corte Costituzionale ha analizzato la questione disponendo che, nell’applicare l’imposta di registro per l’atto “presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e degli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”»;

La questione era stata sollevata dalla Cassazione, con ordinanza del 23 settembre 2019 n. 212, sul presupposto che tale formulazione del citato art. 20 sarebbe lesiva: a) dell’art. 53 Cost., sotto il profilo dell’effettività dell’imposizione, in quanto – in contrasto con il principio «imprescindibile ed anche storicamente radicato» della prevalenza della sostanza sulla forma – «l’esenzione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica dell’atto produce l’effetto pratico di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva»; b) dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’eguaglianza e ragionevolezza, dal momento che «a pari manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non possano corrispondere imposizioni di diversa entità […] a seconda che […] le parti abbiano stabilito di realizzare il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale piuttosto che con più atti collegati», non essendo il collegamento negoziale un indice di diversificazione di fattispecie legittimante un trattamento non omogeneo delle situazioni prese a comparazione;

Nel ritenere non fondata la questione di incostituzionalità, la Corte Costituzionale ha evidenziato come il legislatore, con la denunciata norma, ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di <<imposta d’atto>> dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal Testo Unico.

Quindi le questioni prospettate con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. sono state ritenute non fondate, in quanto si basano sull’assunto del rimettente che, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, i fatti espressivi della capacità contributiva, indicati negli effetti giuridici desumibili, anche aliunde, dalla causa concreta del negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, sono i soli costituzionalmente compatibili con gli evocati parametri.

La pronuncia evidenzia, pertanto, che non può ritenersi manifestamente arbitrario che il legislatore abbia ribadito la ratio dell’imposta di registro in sostanziale conformità alla sua origine storica di <<imposta d’atto>> nei sensi sopra precisati in caso di collegamento negoziale, atteso che, sul piano costituzionale, l’interpretazione evolutiva di detto art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, incentrata sulla nozione di “causa reale”, provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, consentendo, infatti, all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di «indebiti» vantaggi fiscali e di operazioni «prive di sostanza economica», precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione europea).

E’ poi opportuno precisare che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali;

Tuttavia il divieto di comportamenti abusivi non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta, e la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (cfr. Cass. nn. 439/2015, 3938/2014). Anzi, il carattere abusivo di un’operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali (cfr. Cass. nn. 869/2019, 4604/2014, 1372/2011);

Nella sentenza impugnata, la Commissione tributaria regionale, nel confermare la sentenza di primo grado, ha affermato che gli avvisi di liquidazione vengono fondati dall’Ufficio finanziario sull’art. 20 Legge di registro, ritenendo che la riqualificazione della “cessione di quote”, negozio posto in essere dalle parti, in “cessione di ramo di azienda” troverebbe il suo fondamento nell’art. 20 T.U.R. (rubricato “interpretazione degli atti”) ai sensi del quale, l’imposta, prescindendo dal titolo o dalla forma apparente deve essere applicata tenendo conto dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti, e si fa riferimento a quell’indirizzo interpretativo per il quale l’amministrazione sarebbe legittimata a disconoscere gli effetti tributari e civili tipici degli atti o negozi posti in essere dalle parti, ogni qual volta tali effetti non appaiono conformi alla “causa reale” dell’operazione economica complessivamente realizzata e, dunque, prescindendo dal nomen iuris attribuito all’atto;

Il Collegio ritiene, tuttavia, che se è indubitabile che l’Amministrazione in forza di tale disposizione non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici;

Infatti, ancorché da un punto di vista economico si possa ipotizzare che la situazione di chi ceda l’azienda sia la medesima di chi cede l’intera partecipazione, posto che in entrambi i casi si “monetizza” il complesso di beni aziendali, si deve riconoscere che dal punto di vista giuridico le situazioni sono assolutamente diverse. Così posta la questione, pertanto, priva di rilievo risulta la ricerca delle ragioni economiche giustificatrici dell’operazione in quanto, una volta riconosciuto, alla luce dei principi innanzi enunciati, che ci si trova di fronte ad un caso di cessione di partecipazioni societarie non è richiesta alcuna valutazione circa l’esistenza o meno di valide ragioni economiche atte a giustificare l’operazione medesima, per come strutturata, né tantomeno incombe sull’Ufficio alcun onere probatorio al riguardo.

Va quindi, ribadito che “l’incorporazione in un solo documento di più dichiarazioni negoziali, produttive di effetti giuridici distinti e l’incorporazione in documenti diversi di dichiarazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuridici parziali, un unico effetto giuridico finale traslativo, costitutivo o dichiarativo costituiscono tecniche operative alternative per i contribuenti, che si trovano, però, dinanzi ad una sola e costante qualificazione giuridica formulata dal legislatore tributario: la sottoposizione ad imposta di registro del loro atto o dei loro atti in base alla natura dell’effetto giuridico finale dei loro comportamenti, semplici o complessi che essi siano” (Cass. n. 3562/2017; conf. Cass. n. 5748/2018);

Peraltro, come precisato dalla Corte Costituzionale, ritenere irrilevanti sia gli elementi extratestuali che gli atti collegati, non significa favorire l’ottenimento di indebiti vantaggi fiscali, sottraendo all’imposizione l’effettiva ricchezza imponibile, atteso che tale sottrazione «potrebbe rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto» di cui all’articolo 10-bis della Legge 212/2000 (norma antielusiva).

Il ricorso di parte contribuente viene pertanto accolto.

 

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