L’Ordinanza 24 agosto 2022 n. 25233 della Sezione Tributaria (Pres. Chindemi, Rel. Lo Sardo) si occupa, con dovizia di argomentazioni, della nullità della sentenza per vizio di motivazione.
La Corte al riguardo rammenta come, per costante giurisprudenza, inla mancanza di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, va apprezzata, tanto nei casi di sua radicale carenza, quanto nelle evenienze in cui la stessa si dipani in forme del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi posta a fondamento dell’atto, poiché intessuta di argomentazioni fra loro logicamente inconciliabili, perplesse od obiettivamente incomprensibili.
Peraltro, si è in presenza di una tipica fattispecie di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile”, allorquando la motivazione della sentenza impugnata, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente e, talora, anche contenutisticamente sovrabbondante, risulta, tuttavia, essere stata costruita in modo tale da rendere impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento decisorio, e quindi tale da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost..
Nella specie la sentenza della CTR, pur contenendo una esposizione delle ragioni sottese al rigetto dell’appello faceva riferimento ad una non meglio specificata documentazione prodotta dalle contribuenti, senza confutare le motivazioni dell’avviso, come si era verificato in primo grado. In tema di accertamento tributario, la motivazione di un avviso di rettifica e di liquidazione ha la funzione di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’amministrazione finanziaria nell’eventuale successiva fase contenziosa, consentendo al contribuente l’esercizio del diritto di difesa; con la conseguenza che, fermo restando l’onere della prova gravante sull’amministrazione finanziaria, è sufficiente che la motivazione contenga l’enunciazione dei criteri astratti, in base ai quali è stato determinato il maggior valore, (nella specie, relativo all’imposta di registro sulla cessione di azienda), senza necessità di esplicitare gli elementi di fatto utilizzati per l’applicazione di essi, in quanto il contribuente, conosciuto il criterio di valutazione adottato, è già in condizione di contestare e documentare l’infondatezza della pretesa impositiva. Per cui, la sentenza non dà conto del percorso argomentativo sotteso alla valutazione negativa degli elementi addotti dall’amministrazione finanziaria.
In tal modo, peraltro, il giudice di appello ha adottato una decisione inidonea ad assolvere la sua funzione di cognizione piena nel merito della pretesa impositiva. Difatti, il processo tributario non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio. Ne consegue che il giudice tributario, ove ritenga invalido l’atto impositivo per motivi di ordine sostanziale (e non meramente formali), è tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria e a ricondurla, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo che la rappresenta, ma è tenuto a quantificare la corretta pretesa dell’amministrazione finanziaria, sia pure entro i limiti tracciati dai petita delle parti.
Per cui, anche sotto tale profilo, la sentenza impugnata è carente di motivazione adeguata in ordine al mancato esercizio del potere sostitutivo, essendosi limitata al rilievo che il giudice di prime cure non era tenuto alla quantificazione della pretesa impositiva.
Ne deriva che il decisum non raggiunge la soglia del minimo costituzionale, essendo fondato su argomentazioni inidonee a sorreggere il convincimento del giudice di appello.