La Sentenza 26 marzo 2025 n. 8044 della quinta sezione della Corte di Cassazione (Pres. Bruschetta, Rel. Salemme) dichiara l’inammissibilità del ricorso del contribuente e, per conseguenza, la non valutabilità, in favore del contribuente, agli effetti dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000, del giudicato penale assolutorio
Nello specifico, con l’unico motivo di ricorso il contribuente aveva denunciato che la sentenza impugnata sarebbe risultata affetta da motivazione apparente, omessa pronuncia ed omesso esame di fatti decisivi per il giudizio. Inoltre, a fronte di tale motivo, giusta memoria, il difensore del contribuente invoca l’efficacia di giudicato, ai sensi dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000, in riferimento ad una sentenza del 2013 con cui il Tribunale penale di Ragusa, in esito a dibattimento, ha assolto il contribuente dal reato ascrittogli ai sensi dell’art. 530, comma 1, cod. proc. pen., perché il fatto non sussiste.
La Corte, con una lunga motivazione, esamina dapprima l’unico motivo di ricorso dappoi la questione dell’efficacia del giudicato assolutorio.
Il motivo viene ritenuto inammissibile.
La motivazione della sentenza viene quindi ritenuta non già insussistente per mera apparenza, ma, eventualmente, solo incompleta, perché non confutante le difese della privata. E tuttavia la deduzione di un tal vizio non è più consentita dalla vigente formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., fermo, oltretutto, che il recriminato onere confutatorio non sussiste, essendo il giudice gravato soltanto dall’onere di indicare le prove a sostegno della decisione assunta (cfr., tra le innumerevoli, Cass. n. 16056 del 2016).
In riferimento alla censura di omessa pronuncia, per avere la CTR pretermesso i motivi 3, 4 e 5 del ricorso introduttivo, viene rilevato che il ricorso trascrive una parte del terzo motivo (p. 4) e non trascrive affatto il quarto ed il quinto motivo (p. 8); in aggiunta, il ricorso, rispetto a tutti e tre i motivi di cui si tratta, non offre congrua evidenza testuale della loro riproposizione devolutiva alla CTR, limitandosi, insufficientemente, a riferire che il contribuente di sarebbe riportato alle “deduzioni” ed “eccezioni” di primo grado (p. 9).
Il motivo, pertanto, disattende il costante principio secondo cui, “nel giudizio di legittimità, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d’ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del ‘fatto processuale, intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all’onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un’autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi” (cfr., da ult., Cass. n. 28072 del 2021). Ciò tanto più in quanto “la parte che, in sede di ricorso per cassazione, deduce che il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione dell’art. 112 c.p.c. per non essersi pronunciato su un motivo di appello o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, è tenuta, ai fini dell’astratta idoneità del motivo ad individuare tale violazione, a precisare – a pena di inammissibilità – che il motivo o la conclusione sono stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni” (Cass. n. 41205 del 2021).
In riferimento alla censura di omesso esame, essa non deduce alcuna effettiva omissione in cui la CTR sarebbe incorsa nella disamina di veri e propri fatti storici oltretutto decisivi. La censura si appunta, anche graficamente, sull’omessa considerazione di argomentazioni difensive già articolate nel ricorso di primo grado, senza richiamare e riprodurre (in reiterata violazione dei principi di precisione ed autosufficienza del ricorso) gli elementi di prova (non localizzati negli atti dei giudizi di merito) su cui esse fondano e senza altresì dimostrarne l’univo conducenza al sovvertimento del giudizio di merito espresso dalla CTR nella sentenza impugnata.
Questo corposo ed articolato esame si conclude dunque con la declaratoria d’inammissibilità.
La questione rilevante della pronuncia, a nostro avviso, risiede nella affermazione secondo cui “Ciò comporta come conseguenza la non valutabilità, in favore del contribuente, agli effetti dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000, del giudicato penale assolutorio, sulla base del principio, che deve essere ribadito anche in relazione a tale disposizione, secondo cui nel giudizio di legittimità non è ammessa l’applicazione dello “ius superveniens” ove i motivi di ricorso cui lo stesso attiene debbano essere dichiarati inammissibili, atteso che, in detta ipotesi, la disciplina sopravvenuta non potrebbe comunque determinare l’accoglimento del ricorso (Cass. n. 23518 del 2018)”.
Cioè la regola, ad oggi oggetto di varie pronunce interpretative ed oramai sul binario del rinvio alle Sezioni Unite secondo cui “la sentenza irrevocabile di assoluzione perche’ il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi” non viene applicata.
Il beneficio dello ius superveniens non riguarderebbe perciò lo specifico giudizio, in quanto il ricorso è inammissibile.
La questione dei rapporti tra regola sopravvenuta e giudizio di inammissibilitò, già ampiamente esaminata nel processo penale (nel quale evidentemente la legge più favorevole è particolarmente importante) si era risolta con un tentativo da parte della dottrina e della giurisprudenza di individuare una soluzione di compromesso, fondata sulla distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute dell’impugnazione.
Il tema è quello di evitare sì la proliferazione di ricorsi pretestuosi, ma al contempo assicurare una lettura fondata su una visione liberale del processo penale nel cui ambito il favor per l’imputato trovi sempre applicazione, quando possibile.
Anche in questo ambito, tuttavia, la giurisprudenza della Suprema corte (Cass. pen., sez. un., 10 gennaio 2005, n. 12283) ha evidenziato come, il disposto dell’art. 129 c.p.p., nel rendere doveroso per il giudice rilevare in ogni stato e grado del processo una eventuale causa di non punibilità (come la mancanza della querela), pure coordinato con l’art. 609, comma 2, c.p.p. sui poteri di ufficio della Corte di cassazione, pone un precetto che in tanto si rende operativo, in quanto abbia avuto esito positivo il previo scrutinio sulla ammissibilità dell’impugnazione.
Tornando all’ambito tributario si dovrebbe forse, in chiave di lettura costituzionalmente orientata, valorizzare maggiormente la causa di inammissibilità. Se la norma più favorevole si applica ai giudizi pendenti, come si deve, un conto pare essere il ricorso pretestuoso presentato in totale assenza di condizioni di procedibilità o palesemente fuori termine, un altro è una declaratoria di inammissibilità che richiede, come nel caso, diverse pagine di motivazione e di riferimenti giurisprudenziali per essere alla fine rilevata.
Il tema, molto interessante, meriterà forse un approfondimento sulle pagine della rivista.