La terza sezione penale della Cassazione diversifica il dolo da omissione e il dolo da evasione. L’amministratore interposto non può tuttavia invocare tale distinzione avendo derogato dai doveri assunti con la carica

by admintrib

La Terza Sezione Tributaria della Corte di Cassazione nella sentenza 20664 depositata il 17 maggio 2023 (Pres. Andreazza, Rel. Aceto) si occupa, tra i molti argomenti introdotti dai ricorrenti, del presupposto soggettivo per il reato di cui all’articolo 5 del D.Lgs. 74/2000 (omessa dichiarazione).

Dal punto di vista normativo va ricordato che il predetto articolo, nella formulazione attuale, prevede testualmente:

“1. È punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila.20

1-bis. È punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque non presenta, essendovi obbligato, la dichiarazione di sostituto d’imposta, quando l’ammontare delle ritenute non versate è superiore ad euro cinquantamila.

2. Ai fini della disposizione prevista dai commi 1 e 1-bis non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto.”

Per la Corte il delitto di cui all’art. 5, D.Lgs. n. 74 del 2000 è reato omissivo proprio, istantaneo ed unisussistente che si consuma il novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto per la presentazione della dichiarazione (Sez. 3, n. 43695 del 10/11/2011, Bacio Terracina Costa, Rv. 251328; Sez. 3, n. 22045 del 21/04/2010, Perrone, Rv. 247636).

Si tratta, inoltre, di delitto che può essere commesso solo da chi, secondo la legislazione fiscale (D.P.R. n. 22 luglio 1998, n. 322, cit.), è obbligato alla presentazione della dichiarazione stessa. Autore materiale dell’omissione può essere anche il soggetto incaricato della trasmissione (art. 3, comma 3, D.P.R. n. 322 del 1998) o, in ipotesi, anche l’incaricato del materiale recapito o della spedizione del documento, ma si tratta di ipotesi residuali. Per quanto la norma attribuisca a chiunque la possibilità di commettere il reato, la sussistenza dell’obbligo della dichiarazione ed il fine di evasione restringono la platea dei possibili destinatari del precetto ad una cerchia ristretta e ben definita di soggetti.

Trattandosi di reato omissivo proprio posto in essere da persona qualificata dall’obbligo di adempiere entro il termine previsto, le condotte precedenti la scadenza del termine sono estranee alla fattispecie tipica e non hanno rilevanza alcuna, nemmeno ai fini del tentativo punibile. Ne consegue che la volontà dell’omissione deve sussistere solo ed esclusivamente al momento della scadenza del termine. Le condotte antecedenti e successive possono rilevare esclusivamente a fini di prova del dolo, non come frazioni dell’unica condotta omissiva.

La giurisprudenza della Corte di cassazione insegna che l’amministratore di diritto risponde del reato tributario punito a titolo di dolo specifico quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (Sez. F, n. 42897 del 09/08/2018, Rv. 273939; Sez. 3, n. 7770 del 05/12/2013, dep. 2014, Rv. 258850; cfr., altresì, Sez. 5, n. 50348 del 22/10/2014, Serpetti, Rv. 263225).

Trattandosi, però, di obblighi dichiarativi gravanti direttamente ed immediatamente sul legale rappresentante dell’ente la sua responsabilità omissiva non deriva dall’applicazione dell’art. 40 cpv. c.p. (e dunque dalla violazione di un dovere di controllo), bensì dalla violazione dell’obbligo gravante direttamente su di lui, obbligo che concorre a tipizzare la fattispecie di reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5, D.Lgs. n. 74 del 2000. Il reato in questione, inoltre, si consuma nel momento in cui scade il termine ultimo stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione, momento nel quale deve sussistere il dolo specifico di evasione il quale, a sua volta, presuppone la consapevolezza dell’ammontare delle imposte evase e non dichiarate, non richiedendo affatto la norma anche la coincidenza tra il soggetto gravato dell’obbligo dichiarativo e quello che ha posto in essere le operazioni imponibili. E’ allora appena il caso di evidenziare che la ricorrente non ha mai affermato di essere inconsapevole dell’entità delle imposte evase. Per la Corte non v’è dubbio che il fine di evasione qualifica la condotta sul piano penale; ove venga accertata un’imposta effettivamente dovuta superiore a quella dichiarata (o non dichiarata affatto) e/o componenti positive di reddito inferiori a quelle effettive o elementi passivi fittizi, l’indagine non avrebbe verificato altro che alcuni degli elementi costitutivi del reato, quelli che qualificano, sul piano oggettivo, l’offesa degli interessi erariali e che giustificano (ma non esauriscono) la rilevanza penale della condotta. Ma tale indagine non assorbe quella relativa all’accertamento del dolo specifico di evasione che nei reati dichiarativi concorre a tipizzare la condotta. Altrimenti si corre il rischio di identificare il dolo specifico di evasione con la pura e semplice consapevolezza dell’obbligo dichiarativo violato e dell’entità dell’imposta non dichiarata.

Un’operazione dogmaticamente errata che trasformerebbe il dolo specifico di evasione nella generica volontà di non dichiarare al Fisco l’imposta dovuta, con l’ulteriore inaccettabile conseguenza di assorbire tutti i reati in materia dichiarativa negli indistinti illeciti amministrativi di cui agli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, D.Lgs. n. 18 dicembre 1997, n. 441 e di far sostanzialmente resuscitare la contravvenzione di omessa presentazione delle dichiarazioni ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, già prevista dall’abrogato art. 1, comma 1, D.L. 10 luglio 1982, n. 429, convertito con L. 7 agosto 1982, n. 516, che questa Corte ha già affermato non essere in continuità normativa con l’art. 5, D.Lgs. n. 74 del 2000 anche e proprio per la necessità del dolo specifico di evasione, in precedenza non richiesto (Sez. U, n. 35 del 13/12/2000, Sagone, Rv. 217374).

Il reato è illecito di modo; il dolo di evasione è volontà di evasione dell’imposta mediante le specifiche condotte tipizzate dal legislatore penale-tributario. Se per il legislatore penale tributario nemmeno l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, o le false rappresentazioni contabili e i mezzi fraudolenti per impedire l’accertamento delle imposte, sono sufficienti ad attribuire penale rilevanza alle condotte di cui agli artt. 2 e 3, D.Lgs. n. 74 del 2000, essendo necessario il fine di evasione, a maggior ragione il “dolo di omissione” non solo non può essere ritenuto sufficiente a integrare, sul piano soggettivo, il reato di cui all’art. 5, D.Lgs. n. 74 del 2000, ma nemmeno può essere confuso con il dolo di evasione. La volontà omissiva prova la consapevolezza della sussistenza dell’obbligazione tributaria e del suo oggetto, e dunque di uno o alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie, non prova il fine ulteriore della condotta.

Il dolo di evasione esprime l’autentico disvalore penale della condotta e restituisce alla fattispecie la sua funzione selettiva di condotte offensive ad un grado non ulteriormente tollerabile del medesimo bene tutelato anche a livello amministrativo. L’inviolabilità della libertà personale costituisce il metro di misura della rilevanza penale di condotte che potrebbero essere sanzionate in altro modo. Al legislatore penale non interessa il recupero del gettito fiscale ma della persona. Il dolo specifico di evasione, per la sua forte carica intenzionale, segna il punto di frattura più grave tra l’atteggiamento antidoveroso dell’autore del fatto illecito, l’ordinamento giudico ed il bene protetto, un punto di non ritorno che giustifica il sacrificio della inviolabilità della libertà personale in considerazione del livello di aggressione al bene e della funzione rieducativa della pena. E’ proprio questo scopo che nei reati in materia di dichiarazioni fiscali giustifica, rispetto agli omologhi illeciti amministrativi, la reazione punitiva dello Stato e ne spiega la rilevanza penale che si giustifica solo in costanza di condotte poste in essere nella deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo.

Nel caso in questione la ricorrente postulava l’insussistenza del dolo specifico quale conseguenza della inconsapevolezza della assunzione della carica ma il rilievo è, come detto, infondato. Infatti la ricorrente era una mera (consapevole) “testa di legno” e dunque la deliberata scelta di abdicare ai propri doveri di amministratore in favore di gestori occulti dell’impresa deve essere valutata, insieme con altri elementi, quale prova della consapevolezza di accedere ad un progetto illecito fatto proprio mediante la condotta omissiva.

L’amministratore interposto non viola un dovere di vigilanza; egli semplicemente e puramente viola un dovere ricadente su di lui nella piena consapevolezza delle conseguenze e del fine della propria omissione antidoverosa.

 

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