Vizio di ultrapetizione nel giudizio tributario: la Cassazione ne delinea le caratteristiche. Con qualche dubbio residuo.

by Luca Mariotti

“Com’è ampiamente noto, nel contenzioso tributario i motivi dell’opposizione al provvedimento impositivo si configurano come causae petendi della correlata domanda di annullamento, con la conseguenza che incorre nel vizio di extra o ultrapetizione il giudice adito che fondi la propria decisione su motivi non dedotti o dedotti sotto profili diversi da quelli che costituiscono la ratio decidendi, come avvenuto nel caso di specie (cfr. Cass. n. 5929 del 2010; n. 2531 del 2002; n. 8387 del 1996)”.

Con questa motivazione la Corte di Cassazione, nella Sentenza 29 gennaio 2016, n. 1685,  accogliendo una eccezione dell’Agenzia delle Entrate, censura la sentenza di appello emessa dalla CTR Piemonte che sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione.

Si trattava di una causa centrata sul mancato invio della comunicazione di irregolarità prima dell’emissione della cartella di pagamento. Sul presupposto che la finalità della suddetta comunicazione è quella di chiarire le richieste del Fisco — contenute nell’atto tributario- e consentire al contribuente di giustificare il proprio comportamento, la CTR ha motivato la conferma della sentenza di accoglimento della Commissione di primo grado, ritenendo inclusa nella eccepita mancanza di comunicazione preventiva la doglianza sulla carenza di motivazione, non essendo stato messo il contribuente in condizione di verificare la correttezza dell’operato dell’Ufficio in assenza di elementi descrittivi idonei a giustificare le ragioni della ripresa fiscale. Ha in particolare affermato che il mancato invio della comunicazione costituisce “elemento ulteriore ai fini dell’annullamento della cartella, la cui carenza di motivazione appare indubitabile”.

La CTR, secondo gli Ermellini, avrebbe così effettuato una diversa qualificazione della fattispecie, invece che limitarsi – come avrebbe dovuto- a verificare la legittimità dell’operato dell’Ufficio con riferimento alla doglianza dedotta dalla contribuente.

Per la verità l’accento posto sulla causa petendi anziché sul petitum, qualche dubbio lo solleva. Soprattutto se si ha memoria di un consistente filone giurisprudenziale della Suprema Corte centrato sul concetto di giudizio di impugnazione-merito (cfr. per esempio Ordinanza 8 gennaio 2015 n. 106 della sesta sezione, ma anche nn. 24080, 25077, 26836, 26855 tutte del 2014).

Il principio veicolato in questo ultimo ambito è il seguente:  l’impugnazione davanti al giudice tributario attribuisce a quest’ultimo la cognizione non solo dell’atto, come nelle ipotesi di “impugnazione-annullamento”, orientate unicamente all’eliminazione dell’atto, ma anche del rapporto tributario, trattandosi di una cd. “impugnazione-merito”, perché diretta alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva (nella specie) dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria: ne consegue che il giudice che ritenga invalido l’avviso di accertamento non per motivi formali, ma di carattere sostanziale, non deve limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria, e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte.

Quindi riepilogando: l’accertamento sbagliato va corretto nelle ragioni addotte, sempre a favore dell’Ufficio purché nei limiti del petitum. La nullità dell’atto dichiarata a favore del contribuente nel rispetto del petitum, ma cambiando causa petendi è da censurare.

Evidentemente qualcosa ci sfugge.

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