Riqualificazione ex art. 20 del testo unico del registro: non vale in caso di conferimento e successiva cessione di quote

by admintrib

L’Ordinanza 13 settembre 2021 n. 24647 della Sezione Tributaria (Pres. De Masi, Rel. Dell’Orfano) torna a trattare dell’articolo 20 del DPR 131/86 accogliendo il ricorso di una società che aveva visto una operazione straordinaria di costituzione di società, aumento del capitale sociale, e successiva cessione della partecipazione, essere riqualificata in cessione di ramo d’azienda.

Al riguardo la Corte ripercorre la vicenda giurisprudenziale più recente ricordando che con la sentenza n. 158 del 21 luglio 2020 la Corte Costituzionale ha analizzato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, c.d. TUR), nella parte in cui, nella sua attuale formulazione, dispone che, nell’applicare l’imposta di registro «secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e degli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”».

Ora nel ritenere non fondata la questione di incostituzionalità, la Corte Costituzionale ha evidenziato come il legislatore, con la denunciata norma, ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di <<imposta d’atto>> dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal Testo Unico. In tal modo risulta dunque rispettata la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, coerenza sulla cui verifica verteva il giudizio di legittimità costituzionale (su tale esigenza, cfr., ex multis, sentenze n. 10 del 2015, n. 116 del 2013, n. 223 del 2012 e n. 111 del 1997).

La pronuncia evidenzia, pertanto, che non può ritenersi manifestamente arbitrario che il legislatore abbia ribadito la ratio dell’imposta di registro in sostanziale conformità alla sua origine storica di <<imposta d’atto>> nei sensi sopra precisati in caso di collegamento negoziale, atteso che, sul piano costituzionale, l’interpretazione evolutiva di detto art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, incentrata sulla nozione di “causa reale”, provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, consentendo, infatti, all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di «indebiti» vantaggi fiscali e di operazioni «prive di sostanza economica», precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione europea).

La riqualificazione della “cessione di quote”, negozio posto in essere dalle parti, in “cessione di ramo di azienda” troverebbe il suo fondamento nell’art. 20 T.U.R. (rubricato “interpretazione degli atti”) ai sensi del quale, l’imposta, prescindendo dal titolo o dalla forma apparente deve essere applicata tenendo conto dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti, e si fa riferimento a quell’indirizzo interpretativo per il quale l’amministrazione sarebbe legittimata a disconoscere gli effetti tributari e civili tipici degli atti o negozi posti in essere dalle parti, ogni qual volta tali effetti non appaiono conformi alla “causa reale” dell’operazione economica complessivamente realizzata e, dunque, prescindendo dal nomen iuris attribuito all’atto, impostazione che si fonderebbe sulla valorizzazione dell’art. 20 T.U.R. come norma generale antielusiva per l’imposizione di registro. Tuttavia, precisano i Giudici della Sezione Tributaria “.. se è indubitabile che l’Amministrazione in forza di tale disposizione non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”.

Il ricorso viene dunque accolto quanto alla specifica eccezione, con conseguente cassazione della sentenza impugnata. Ma la motivazione piuttosto complicata, che ribadisce principi di diritto che a nostro modesto avviso sarebbero suscettibili di portare a conclusioni opposte, non lascia del tutto tranquilli sulla complessa vicenda dell’articolo 20 che, dopo aver dormito sonni tranquilli per trent’anni, ha subìto le interpretazioni “creative” del periodo dell’abuso del diritto, non del tutto tacitate neppure dinanzi a una specifica disposizione antielusiva (l’articolo 10-bis dello “Statuto”) che non dovrebbe lasciare adito a dubbi di sorta rispetto alla natura cartolare e limitata al contenuto dell’atto della specifica regola valevole per il Registro.

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