Transfer pricing domestico con criteri discutibili.

by Luca Mariotti

Breve sentenza su un argomento pur interessantissimo, come quello del c.d. “transfer pricing domestico”. Si tratta della sentenza 22 giugno 2015, n. 12844 della Corte di Cassazione.

La succinta motivazione veicola il principio dell’esistenza della questione problematica del prezzo “corretto” delle transazioni infragruppo. Nella sentenza la Corte affronta tale questione affermando due principi: a) non si può mai escludere che una operazione di “transfer pricing domestico”, tra società operanti in Italia, possa dar luogo ad una elusione fiscale, e b) nella valutazione del comportamento delle società coinvolta si deve fare riferimento ai principi di cui all’art.9 del d.p.r. n.917 del 1986.

Quindi prezzo della transazione infragruppo da determinare con riferimento al valore normale.

Se i principi sono questi non sembrano corretti.

Ovvero impostare la questione come elusiva (anzi, abusiva per come è motivata la sentenza) dovrebbe dare come assodato che sia sussistente un indebito risparmio di imposta. Ricordiamo le Sentenze n. 30055/08, 30056/08 e 30057/08 del 02 dicembre 2008, depositate il 23 dicembre 2008 delle Sezioni Unite, ai cui principi, in attesa della riforma che pare in dirittura d’arrivo, ci dobbiamo attenere. Esse richiedono che nell’operazione abusiva sia presente lo scopo (anche non esclusivo) di conseguire tale indebito risparmio. Nella riforma (atto camera dei Deputati n. 163) si parla addirittura di “risparmi fiscali indebiti” realizzati attraverso operazioni “prive di sostanza economica”.

Quindi sia oggi che domani l’elemento che configura l’abuso (o elusione che dir si voglia con le future norme) è proprio il risparmio d’imposta ottenuto appunto tramite un disegno elusivo che esula dalla normalità delle transazioni. Ricondurre tutto  solo alla necessità di valorizzare gli scambi infragruppo a valore normale non pare una condizione sufficiente, in difetto, a configurare l’abuso del diritto.

Che risparmio d’imposta si configura tra società in regime IRES e quindi di imposta proporzionale? Da un lato, anche ipotizzando prezzi ridotti, c’è sì un minor ricavo, ma dall’altro si ha un minor costo. Ciò almeno se non interviene dal lato dei ricavi un soggetto con un regime di vantaggio (come per es. cooperative, società con sedi in aree svantaggiate beneficiarie di talune agevolazioni, società in perdita ecc.) a fronte di (presunti maggiori) costi che maturano in capo ad una società a fiscalità ordinaria. Per esempio quando la questione è stata esaminata dalla Cassazione, con la sentenza n. 8849/2014, si è affrontato il caso in cui una delle società, la controllante, era costituita in forma di cooperativa e dunque beneficiaria di un regime fiscale di vantaggio.

Al limite la questione, su queste sole basi, potrebbe essere posta con riferimento all’antieconomicità, non all’abuso. Ma non è questo il caso della sentenza di ieri.

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