Società semplice: l’immobile concesso in godimento ai soci non costituisce reddito diverso di questi ultimi. La mancanza dell’attività di impresa è il discrimine e ciò offre elementi di riflessione.

by AdminStudio

“La disposizione della lett. h – ter dell’art. 67, comma 1, t.u.i.r. non è applicabile agli immobili concessi in godimento al socio di società semplice”.

Questo è il principio di diritto enunciato dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione nella sentenza n. 17441 depositata il 25 giugno 2024 (Pres. Cirillo, Rel. Lume).

La questione interessa la corretta interpretazione dell’art. 67, comma 1, lett. h – ter, t.u.i.r. e della sua applicabilità a beni concessi in godimento da una società semplice, è fondato.

L’art. 67, comma 1, lett. h – ter, t.u.i.r. (lettera inserita dall’art. 2, comma 36 – terdecies, d.l. n. 138/2011, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 148/2011, applicabile, a norma del comma 36 – duodevicies del predetto art. 2, d.l. n. 138/2011, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 17 settembre 2011) dispone che costituiscano redditi diversi “la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni dell’impresa a soci o familiari dell’imprenditore”.

Come evidenziato anche nei documenti di prassi (circolare Agenzia delle entrate 24E del 15 giugno 2012) i destinatari delle disposizioni introdotte sono, pertanto, sia i soggetti che concedono in godimento i beni (concedenti), sia quelli che li ricevono (utilizzatori).

In particolare, gli utilizzatori che rientrano nell’ambito applicativo della norma sono i soggetti che beneficiano dei beni relativi all’impresa nella propria sfera privata (i soci di società e di enti privati di tipo associativo residenti che svolgono attività commerciale; i familiari dell’imprenditore individuale residente nel territorio dello Stato); la circolare prevede altresì che “Attesa la necessità di evitare l’aggiramento della norma, si ritiene che debbano essere considerati destinatari della disposizione in esame anche i soci o i loro familiari che ricevono in godimento beni da società controllate o collegate ai sensi dell’art. 2359 del codice civile a quella partecipata dai medesimi soci”. Tale documento esplicita che “Per quanto concerne i soggetti concedenti, sono da includere nell’ambito applicativo della nuova disposizione, purché residenti: – l’imprenditore individuale; – le società di persone (società in nome collettivo e società in accomandita semplice); – le società di capitali (società per azioni, società a responsabilità limitata, società in accomandita per azioni); -le società cooperative; – le stabili organizzazioni di società non residenti; – gli enti privati di tipo associativo limitatamente ai beni relativi alla sfera commerciale. Restano escluse dall’applicazione della norma le “società semplici” concedenti, in quanto soggetti che non svolgono attività d’impresa”.

Il presupposto dell’imposizione di detti redditi è, infatti, che si tratti di beni concessi da società che svolgano attività commerciale.

Ma ciò, ricorda la Corte, è precluso alla società semplice (Cass. 05/11/1977, n. 4709 secondo cui, ai sensi dell’art. 2249 cod. civ., le società aventi per oggetto l’esercizio di un’attività commerciale devono costituirsi secondo uno dei tipi regolati dai capi terzo e seguenti del titolo quinto, delle società, del libro quinto del codice civile, tra i quali non è inclusa la società semplice, caratterizzata dal fatto di avere a oggetto l’esercizio di un’attività diversa da quella commerciale).

Ha quindi errato la CTR, una volta ritenuta l’avvenuta affrancazione dell’immobile in favore della società semplice a far data dal 2009 e quindi la titolarità del primo in capo alla seconda nell’anno oggetto della ripresa, il 2014, individuando la stessa come concedente in favore del contribuente, a ritenere applicabile la disposizione della lett. h – ter dell’art. 67, comma 1, t.u.i.r., che non è invece applicabile.

In realtà anche per le società commerciali la questione della concessione di beni in uso gratuito ai soci sarebbe (doverosamente) risolvibile con un recupero a tassazione dei relativi costi in termini di mancanza di inerenza, direttamente in dichiarazione. In questo modo il bene non risulterebbe fiscalmente afferente ad una attività di impresa e dunque l’effetto sarebbe quello dell’intestazione ad una società semplice.

In questo contesto l’apertura interpretativa della Cassazione pare offrire futuri spunti di difesa.

 

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