Con la sentenza n. 137 del 2 luglio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi quarto e quinto, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) sollevate, in riferimento agli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e agli artt. 8, 10 e 11 della Dichiarazione universale dei diritti umani, dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Roma ed ha dichiarato non fondatele questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi quarto e quinto, del d.P.R. n. 600 del 1973, sollevate, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 25, 111, primo comma, Cost. e, per il tramite degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 14, comma 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici, sempre dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Roma.
Tuttavia l’elemento interessantissimo della pronuncia è la formulazione di alcuni principi frutto di una interpretazione costituzionalmente orientata proprio dell’art. 32, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973.
Secondo la Consulta ove la norma si riferisce alle «notizie», ai «dati», agli «atti», ai «documenti», ai «libri» e ai «registri» che «non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente» si deve ritenere, valorizzando l’espressione utilizzata dal legislatore, che la preclusione probatoria operi solo per gli elementi informativi che hanno un contenuto univocamente «a favore del contribuente», da intendersi come quelli che, ove immediatamente consegnati, avrebbero potuto impedire un accertamento ovvero ridurre la portata dell’eventuale pretesa dell’amministrazione finanziaria.
Devono, pertanto, essere esclusi dall’ambito applicativo della sanzione dell’inutilizzabilità quegli elementi informativi che rivestono (ad esempio, un registro in cui figurassero anche annotazioni contra se) un contenuto, per così dire, misto, ovvero anche parzialmente suscettibile di produrre effetti sfavorevoli per il contribuente. È solo all’interno di questi confini che si giustifica, superando gli specifici profili di illegittimità costituzionale evocati dal rimettente, la portata delle norme censurate, che risultano allora rivolte a spingere il contribuente a cooperare all’attività dell’amministrazione finanziaria, nell’ambito di una lealtà espressiva di una convergenza di interessi alla corretta determinazione dell’obbligazione tributaria; tutto il meccanismo normativo risulta infatti funzionale a evitare, anche con scopo deflattivo, l’istaurazione di un giudizio tributario non necessario (sull’ampia discrezionalità del legislatore in materia processuale e sulla finalità di deflazionare il contenzioso tributario, si veda, da ultimo, sentenza n. 36 del 2025).
Inoltre la Corte sottolinea come, nella medesima prospettiva, deve anche essere ampliato il ricordato principio, già affermato in nuce dalla Corte di cassazione, per cui non possono essere richiesti documenti o informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria (Cass., n. 8299 del 2014).
In forza dell’evoluzione digitale e normativa che ha condotto alla creazione di nuove banche dati, come quella relativa alle fatture elettroniche, non possono essere richiesti al contribuente elementi informativi che l’amministrazione finanziaria potrebbe ottenere semplicemente interrogandole.
È ben vero infatti che la stessa Corte Costituzionale, in altro contesto, ha affermato che un «sistema di fiscalità di massa» poggia «sull’architrave dell’autoliquidazione delle imposte, cui deve corrispondere, nell’ambito dell’imposta sui redditi, la fedele compilazione e la tempestiva presentazione della dichiarazione, che costituisce uno degli atti più importanti nell’ambito della disciplina attuativa di tale imposta», per cui l’inosservanza di quest’obbligo incide sull’attività di accertamento dell’amministrazione finanziaria, che «dovrà invece ricorrere ad altri e più impegnativi strumenti nei confronti di quei contribuenti che, non assumendo tale atteggiamento collaborativo, presumibilmente sono orientati a sottrarsi totalmente al versamento delle imposte dovute», con «un impegno ben superiore, in termini di risorse umane, rispetto a quello normalmente richiesto per la effettuazione degli altri controlli, e in particolare di quelli automatizzati e formali» (sentenza n. 46 del 2023).
Tuttavia, queste affermazioni, che hanno senso in riferimento alle dichiarazioni fiscali, non giustificano certo che al contribuente vengano richiesti oneri di attivazione (con il potenziale rischio, peraltro, di eventuali errori che determinino poi l’inutilizzabilità delle prove) per fornire elementi informativi di cui l’amministrazione finanziaria potrebbe facilmente disporre.
Del resto, così ridimensionata e intesa, la norma censurata è idonea a inserirsi nel più ampio contesto dell’evoluzione dei rapporti tra “autorità” e “consenso” e del tentativo di un graduale abbandono, da parte del legislatore tributario italiano, della risalente visione autoritaria del rapporto tra amministrazione finanziaria e contribuente a favore di una progressiva partecipazione di quest’ultimo al procedimento.
A partire dalla fine degli anni Novanta, infatti, questa evoluzione ha sancito un progressivo passaggio a un approccio fondato sulla collaborazione.
Tale approccio si basa sul presupposto che le relazioni improntate sulla fiducia e sulla collaborazione reciproca siano, in molti casi, più efficaci del ricorso a strumenti autoritari e repressivi.
Nel solco di questa evoluzione si è collocato, ad esempio, il regime di adempimento collaborativo introdotto in Italia con gli articoli da 3 a 7 del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128 (Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23), che ha sviluppato meccanismi di compliance fiscale basati proprio sul dialogo anticipato fra fisco e contribuente volti a ridurre, anche attraverso l’individuazione dei profili di maggior rischio fiscale, l’attività di accertamento successiva alla presentazione della dichiarazione.
Si tratta di una prospettiva che è stata rafforzata dalla recente riforma tributaria, che, con il decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 221 (Disposizioni in materia di adempimento collaborativo), ha apportato importanti modifiche al d.lgs. n. 128 del 2015, tra l’altro, ampliando la platea di contribuenti destinatari dell’istituto, implementando il regime premiale loro riservato, introducendo la certificazione del sistema integrato di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale da parte di professionisti indipendenti qualificati, fermi restando i poteri di controllo dell’amministrazione finanziaria.
In conclusione, alla luce della interpretazione costituzionalmente orientata, operando all’interno di una logica tesa a favorire il dialogo anticipato, la cooperazione e l’intesa tra fisco e contribuente, le disposizioni censurate non violano i parametri evocati dal rimettente con riferimento all’art. 24, secondo comma, Cost. sul diritto alla difesa, all’art. 25 Cost., evocato in relazione al diritto alla pubblica udienza, e all’art. 111, Cost. sul giusto processo, né all’art. 6 CEDU nonché all’art. 14, comma 3, lettera g), PIDCP, per il tramite degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.
