Ma cosa hai messo nel caffè?

by Luca Mariotti

Questo era il titolo del post che avevamo lanciato sui social non molti mesi fa (il riferimento era, nelle news, quella titolata “anche le presunzioni hanno un limite”.

A distanza di mesi in Cassazione si ripropone la stessa identica vicenda. Quella di un accertamento effettuato con metodo analitico-induttivo su un pubblico esercizio. In particolare, per quanto riguardava la somministrazione di caffè, l’ufficio aveva calcolato i maggiori ricavi utilizzando il prezzo di vendita della tazzina, moltiplicato per il numero di somministrazioni ricavato dal rapporto tra il quantitativo di caffè utilizzato nell’anno e quello necessario per la somministrazione di una consumazione. Per gli altri prodotti aveva applicato la percentuale media di ricarico del 150%, calcolato sul costo del venduto.

Mentre nella vicenda già commentata in precedenza nei tre gradi di giudizio l’amministrazione era sempre uscita con le ossa rotte, stavolta in appello vi è stato un parziale accoglimento delle ragioni dell’ufficio. In particolare sulla utilizzabilità negli accertamenti delle nozioni di “comune esperienza”.

Il contribuente ricorre per Cassazione e la Sentenza 18 maggio 2016 n. 10204 della quinta Sezione accoglie l’eccezione di insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.).

Detto vizio riguarda proprio il riferimento operato dalla Commissione territoriale, al “fatto notorio” sia per la individuazione del quantitativo di caffè necessario per preparare una tazzina (7 grammi), sia per la determinazione della percentuale di ricarico da applicata sugli altri prodotti (50%).  Secondo la Corte “il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati ne controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. Pertanto non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, ne quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio (Cfr. anche Cass. nn. 23978/2007, 11946/2002, 16962/2012)”.

C’è da chiedersi allora se abbia senso, da parte dell’amministrazione, insistere ancora su queste argomentazioni meramente presuntive alla luce delle reiterate sentenze della Suprema Corte che escludono che la contabilità regolarmente tenuta possa essere disattesa sulla base di queste presunzioni semplici, sia quando si pretende di “vestirle” da presunzioni qualificate sia quando si richiami la nozione della comune esperienza.

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