L’accertamento parziale non preclude un successivo accertamento per lo stesso periodo di imposta, ma questo non può essere basato su elementi già conosciuti ma non contestati al momento del primo atto impositivo.

by AdminStudio

L’Ordinanza 20 gennaio 2025 n. 1287 della sezione tributaria della Corte di Cassazione (Pres.Giudicepietro, Rel. Lume) dà alle norme sugli accertamenti tributari il meritato rigore interpretativo ed è quindi da salutare con sollievo e favore nell’epoca delle autotutele sostitutive “in malam partem” (SS.UU. 30051/2024) che consentirebbero accertamenti rettificativi illimitati in spregio ad ogni specifica norma di garanzia.

Il tema è quello dell’accertamento parziale ex art. 41-bis del DPR 600/73. Tale regola prevede, in particolare, che “senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’art. 43, i competenti uffici dell’Agenzia delle entrate, qualora dagli accessi, ispezioni e verifiche, nonché da segnalazioni effettuate dalla Direzione centrale accertamento, da una Direzione regionale ovvero da un ufficio della medesima Agenzia ovvero di altre Agenzie fiscali, dalla Guardia di Finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso dell’anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a formare il reddito imponibile, compresi i redditi da partecipazione in società, associazioni e imprese di cui all’art. 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, o l’esistenza di deduzioni, esenzioni e agevolazioni in tutto o in parte non spettanti, nonché l’esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate, escluse le ipotesi di cui agli artt. 36-bis e 36-ter, possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibile, ovvero la maggior imposta da versare, anche avvalendosi delle procedure previste dal D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. Non si applica la disposizione dell’art. 44”.

In tema di Iva, disposizione analoga e del tutto sovrapponibile a quella di cui al citato art. 41-bis (cfr. Cass. 19/10/2007, n. 21941) è recata dall’art. 54, quinto comma, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, a mente del quale, “senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’art. 57, i competenti uffici dell’Agenzia delle entrate, qualora dagli accessi, ispezioni e verifiche, nonché dalle segnalazioni effettuate dalla Direzione centrale accertamento, da una Direzione regionale ovvero da un ufficio della medesima Agenzia ovvero di altre Agenzie fiscali, dalla Guardia di Finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso dell’anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di corrispettivi o di imposta in tutto o in parte non dichiarati o di detrazioni in tutto o in parte non spettanti, può limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, l’imposta o la maggiore imposta dovuta o il minor credito spettante, nonché l’imposta o la maggior imposta non versata, escluse le ipotesi di cui all’art. 54-bis, anche avvalendosi delle procedure previste dal D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218”.

La Corte di Cassazione, ricordano i Giudici, ha in più occasioni avuto modo di affermare che l’accertamento parziale di cui ai citati artt. 41-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54, quinto comma, del D.P.R. n. 633 del 1972, “è uno strumento diretto a perseguire la finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza di attendibili posizioni debitorie”, ma non costituisce “un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del D.P.R. n. 633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole”,

Ciò in ragione della premessa introduttiva della disciplina dettata dagli articoli in questione (applicabili “senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’art. 43”, quanto all’art. 41-bis, e “dall’art. 57”, quanto all’art. 54, quinto comma), la quale è deputata a circoscrivere il termine complessivo entro il quale l’Amministrazione può esercitare la potestà accertativa, tenendo distinto il metodo di accertamento con la tempistica dello stesso (cfr. Cass. 28/10/2015, n. 21984; Cass. 7/11/2019, n. 28681; Cass. 1/10/2018, n. 23685; Cass. 4/04/2018, n. 8406).

La differenza qualitativa di tale tipo di accertamento rispetto a quello ordinario, secondo la Corte, non discende dunque dalla particolare semplicità della segnalazione, potendo esso basarsi anche su una verifica generale (vedi Cass. 12/05/2006, n. 11057; Cass. 7/02/2008, n. 2833; Cass. 5/02/2009, n. 2761; Cass. 22/01/2010, n. 1150), bensì dalla disponibilità, in capo all’Amministrazione, di elementi (non necessariamente provenienti da segnalazione di soggetti ad essa estranei, ben potendo derivare anche da fonti interne) idonei a dare contezza della sussistenza, a qualsiasi titolo, di attendibili posizioni debitorie, senza richiedere, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di un ufficio valutativo ulteriore rispetto a quello che si risolve nel recepire e fare proprio il contenuto della segnalazione o lo svolgimento di ulteriori attività di approfondimento (appannaggio di accertamenti più complessi), valendosi di una “sorta di automatismo argomentativo” indotto da quelle fonti di conoscenza, per modo che il confezionamento dell’atto risulta possibile sulla base della sola segnalazione senza necessità di ulteriore approfondimento (cfr. Cass. 23/12/2014, n. 27323; Cass. 10/02/2016, n. 2633).

E’ ritenuto pacifico che la locuzione che, aprendo le disposizioni di cui ai citati artt. 41-bis D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 D.P.R. n. 633 del 1972, fa salva l’ulteriore azione di accertamento nei termini di decadenza previsti, faccia riferimento a pretese dell’Ufficio fondate su fonti diverse da quelle prese a base dall’accertamento parziale o comunque su dati la cui conoscenza, da parte dell’Ente impositore, sia sopravvenuta all’accertamento (sul punto Cass. 4/08/2010, n. 18065; Cass. 4/12/2020, n. 27788; Cass. 22/04/2022, n. 12854). E ciò non in ragione dell’applicazione degli artt. 43, quarto comma, D.P.R. n. 600 del 1973, e 57, quarto comma, del D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di accertamento integrativo, stante la non sovrapponibilità di tale istituto con quello dell’accertamento parziale, siccome dettati per diverse finalità e soggetti a differenti discipline (vedi Cass. 1/10/2018, n. 23685; anche Cass. 28/10/2015, n. 21992), bensì in applicazione del principio di tendenziale unicità che connota gli accertamenti, di cui i due strumenti previsti dagli artt. 41-bis e 43 D.P.R. n. 600 del 1973 e 54, quinto comma, e 57, quarto comma, del D.P.R. n. 633 del 1972 costituiscono deroga.

Ne consegue che l’accertamento susseguente a quello parziale non può basarsi su atti o fatti acquisiti e già conosciuti dall’ente impositore fin dall’origine ma non contestati, ma deve necessariamente fondarsi su nuovi elementi atti a giustificarlo, non essendo ammissibile un accertamento a singhiozzo, senza che di essi debba darsi indicazione in modo specifico a pena di nullità, come invece sancito dall’art. 43 del citato D.P.R.

Tali principi in diritto sono stati espressamente richiamati dalla CTR per cui le censure sul punto dell’interpretazione dei dati normativi sono infondate.

Concludendo, il ricorso dell’Agenzia delle Entrate viene rigettato. Alla soccombenza segue la condanna al pagamento delle spese.

 

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