In periodo pre-natalizio arriva finalmente l’attesa decisione della Corte Costituzionale (Sentenza 204 depositata il 17 dicembre 2024) relativamente alla questione della indipendenza (o meglio della non indipendenza) dei Giudici Tributari sollevata con ordinanza del 31 ottobre 2022 dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Venezia, sezione prima, con ordinanza del 21 dicembre 2022 dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, sezione 7, e con ordinanza del 4 agosto 2023 dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Messina. Per i rimettenti le riforme della giustizia tributaria recate dalla legge 31/08/2022, n. 130 non garantirebbero a sufficienza la terzietà del Giudice la cui carriera e il cui compenso dipendono dal MEF e dunque sostanzialmente da una delle parti in causa nei giudizi su tributi erariali, determinandosi potenzialmente un contrasto con con i principi costituzionalmente garantiti dell’indipendenza e dell’imparzialità dei giudici dettati dagli artt. 101, 104, 105 108 e 110 Cost., nonché dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Dopo una lunghissima premessa, la Consulta divide le questioni da trattare in due grandi gruppi:
- il primo riguardante quelle relative all’ipotizzata lesione dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici tributari, sub specie di asserita perdita di serenità e turbamento psicologico del magistrato a causa dell’eccessiva ingerenza del Ministero dell’economia e delle finanze nella gestione della giustizia tributaria;
- il secondo gruppo riguarda, in particolare, il compenso, la nomina, la promozione dei giudici tributari, i poteri del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il sistema elettorale del Consiglio di presidenza, le sanzioni disciplinari e l’attribuzione di funzioni collegiali ai giudici onorari.
Fatto un riepilogo della evoluzione normativa viene preliminarmente esaminata l’eccezione con cui l’Avvocatura generale dello Stato ha contestato l’ammissibilità, per difetto di rilevanza, delle censure sollevate con le tre ordinanze dalle tre Corti di giustizia tributarie rimettenti.
La difesa statale evidenzia che i giudici rimettenti non sarebbero chiamati a fare diretta applicazione nei giudizi a quibus delle disposizioni censurate poiché esse atterrebbero allo status del giudice, alla composizione del CPGT nonché, in generale, alle garanzie e ai doveri che riguarderebbero l’operare del giudice e non avrebbero una effettiva interferenza nel decidere in relazione alle concrete questioni poste al loro esame e alle specifiche e conseguenti decisioni che sono chiamati ad adottare nei giudizi a quibus.
L’eccezione di inammissibilità delle censure viene ritenuta fondata.
La Corte ritiene di dover verificare l’esistenza della «necessaria relazione di “dipendenza funzionale” tra giudizio a quo e tema agitato attraverso la questione di legittimità costituzionale: relazione che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, deve assumere i connotati della pregiudizialità, la quale comporta l’impossibilità di definire il procedimento pregiudicato in assenza della delibazione della quaestio pregiudicante» (sentenza n. 164 del 2017).
Viene ricordato che in linea di principio, tutte le volte in cui la Corte Costituzionale è entrata nel merito di questioni di legittimità costituzionale relative a norme riguardanti lo status di magistrato, ciò è avvenuto in ragione di una incidenza diretta di quelle norme con l’oggetto del giudizio a quo.
Così, ad esempio, nel giudizio deciso con la sentenza n. 237 del 2013, la Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di norme che avevano disposto la soppressione di diversi uffici giudiziari: oggetto del giudizio di costituzionalità era, in quella sede, la potestà di ius dicere dei giudici rimettenti, direttamente e immediatamente dipendente dalle norme censurate. Nessun dubbio poteva sussistere, pertanto, sulla rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
Analogamente, il nucleo principale delle questioni decise con la sentenza n. 18 del 1989 riguardava la struttura e la composizione dell’organo giudicante e involgeva lo status di giudice, la sua composizione, nonché, in generale, le garanzie e i doveri che riguardano il suo operare, tutti aspetti ontologicamente rilevanti nell’àmbito dei relativi procedimenti dai quali le questioni provenivano.
Nelle tre ordinanze i giudici rimettenti affermano che le questioni di legittimità costituzionale sono direttamente rilevanti nei rispettivi giudizi principali, in quanto la disciplina normativa censurata sarebbe concretamente e immediatamente produttiva di un turbamento della serenità decisionale nonché dell’autonomia e indipendenza del giudice tributario.
Ai fini della rilevanza occorre ulteriormente verificare se le norme asseritamente interferenti sullo status di magistrato ne compromettano l’indipendenza e la terzietà riflettendo lesioni non solo potenziali delle garanzie costituzionali ma violazioni attuali in relazione alla concreta questione posta all’esame dei rimettenti e alla specifica e conseguente decisione che sono chiamati a adottare nei giudizi a quibus.
Questi presupposti sono del tutto assenti nelle odierne questioni, alla luce della stessa motivazione sulla rilevanza fornita dai giudici rimettenti in relazione all’attuale sistema normativo sull’organizzazione della giustizia tributaria e sui concreti e specifici elementi caratterizzanti i giudizi a quibus che permettano di dubitare realmente dell’indipendenza del giudice.
Nelle fattispecie in esame, infatti, l’asserito perturbamento del giudice, derivante dalla sensazione di dover giudicare in merito a una controversia tributaria non “in un campo neutro” ma, per così dire, “in casa” del MEF, con i possibili condizionamenti connessi ai profili organizzativi, è privo di riscontri oggettivi circa la concreta lesione ad opera delle disposizioni censurate delle garanzie di autonomia e indipendenza della magistratura sancite dalla Costituzione a presidio dell’attività giurisdizionale.
Alla luce di tutto quanto sopra, le questioni di legittimità costituzionale relative al primo gruppo di censure sono inammissibili per difetto di rilevanza in quanto non si ravvisa in concreto quella situazione di effettiva interferenza sulle condizioni di indipendenza e terzietà nel decidere tali da condizionare strutturalmente e funzionalmente lo ius dicere del giudice tributario.
Il secondo gruppo di censure prospetta una serie di dubbi di legittimità costituzionale relativi a disposizioni aventi ad oggetto il compenso, la nomina, la promozione dei giudici tributari, i poteri del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il sistema elettorale del Consiglio di presidenza, le sanzioni disciplinari e l’attribuzione di funzioni collegiali ai giudici onorari e quindi al corretto funzionamento della giustizia tributaria.
Anche queste questioni sono inammissibili per irrilevanza.
L’oggetto dei giudizi a quibus riguarda, infatti, controversie tra l’Agenzia delle entrate e privati afferenti, rispettivamente, alla debenza del contributo unificato (r.o. n. 50 e n. 128 del 2023) e dell’imposta sul valore aggiunto (r.o. n. 144 del 2022), che nulla hanno a che vedere con il compenso, la nomina, la promozione dei giudici tributari, i poteri del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il sistema elettorale del medesimo Consiglio, le sanzioni disciplinari e la partecipazione ai collegi da parte dei giudici onorari.
Peraltro, neppure si profila il pericolo di una sostanziale sottrazione delle disposizioni censurate al controllo di legittimità costituzionale, essendo agevole ipotizzare altre sedi in cui le medesime questioni potrebbero trovare una ben più pertinente ragion d’essere. Difatti, la normativa in esame potrebbe essere eventualmente sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) nel corso di un giudizio instaurato dinanzi alla competente autorità giurisdizionale.
Alla luce della giurisprudenza già richiamata con riguardo al primo gruppo di censure, devono essere dichiarate inammissibili, perché irrilevanti, anche tutte le questioni del secondo gruppo sollevate con le tre ordinanze indicate in epigrafe.
Contiamo di riflettere meglio sulle motivazioni nel prossimo numero della rivista.
Tuttavia le considerazioni dei remittenti, che poggiano sui condizionamenti evidentissimi del MEF su carriere e retribuzioni dei Giudici non pare che possano essere superati dalla considerazione secondo cui “l’asserito perturbamento ………….è privo di riscontri oggettivi circa la concreta lesione ad opera delle disposizioni censurate delle garanzie di autonomia e indipendenza della magistratura sancite dalla Costituzione a presidio dell’attività giurisdizionale”. Il “perturbamento” non è questione della psiche, ma si tratta di un incasellamento delle proprie condizioni lavorative sotto l’influenza di una delle parti in causa, talmente evidente che finanche l’ubicazione di molte aule di giustizia è oramai anche fisicamente presso il MEF. E i risultati in termini di qualità delle pronunce è evidente a tutti.