La Sentenza n. 939 depositata il 15 gennaio 2025 della sezione tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Crucitti, Rel. Lenoci) si occupa tra l’altro di interpretare la regola sulla interposizione soggettiva nell’ambito delle imposte dirette (art. 37 terzo comma del DPR 600/73, secondo cui “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”)
In questo contesto normativo viene rilevato che la C.T.R. aveva ritenuto che la disposizione di cui all’art. 37, comma 3, D.P.R. n. 600/1973, nel caso di specie non sarebbe applicabile, in quanto si verterebbe in un’ipotesi di interposizione reale, e non di interposizione fittizia. Cioè secondo i Giudici di appello la norma riguarderebbe solo l’interposizione fittizia e non quella reale.
La giurisprudenza più recente della Corte, tuttavia, è orientata nel senso di ritenere pacificamente applicabile la disposizione suddetta non solo ai casi di interposizione fittizia di persona (e quindi quando i redditi vengano imputati direttamente all’interponente), ma anche ai casi di interposizione reale, e quindi quando il soggetto interposto sia il reale percettore dei redditi, e questi vengano ritrasferiti all’interponente (Cass. 17 febbraio 2022, n. 5276; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27625; Cass. 29 luglio 2016, n. 15830). Secondo la Corte la funzione della norma appare essere quella di evitare che il contribuente, che venga accertato come effettivo possessore del reddito altrui, si sottragga al prelievo nascondendo all’Amministrazione finanziaria la propria identità di contribuente, ricorrendo a interposizioni negoziali tali da attribuire a terzi il possesso del reddito.
I Giudici rilevano che il possesso del reddito “per interposta persona” costituisce il fatto ignoto oggetto della prova logica a carico dell’Amministrazione finanziaria, quale elemento che lega il reddito prodotto dal soggetto interposto al titolare effettivo. La rilevanza dell’effettivo possesso del reddito rispetto alla sua titolarità formale sancisce la prevalenza della sostanza (possesso del reddito) sulla forma (titolarità effettiva del reddito) e della realtà sull’apparenza, dovendosi individuare non la natura fittizia o ingannevole della titolarità del reddito, bensì l’effettività dell’esercizio del possesso del reddito a dispetto di chi ne sia il formale titolare.
La relazione di fatto tra contribuente e reddito, di cui alla locuzione “effettivo possessore per interposta persona”, va ricercata in relazione alla tipologia di reddito oggetto di accertamento (nella specie, reddito di impresa), al fine di operare la traslazione del reddito prodotto all’effettivo titolare accertato. In caso di reddito di impresa diviene rilevante (come osservatosi anche in dottrina) la figura dell’amministratore di fatto del soggetto imprenditoriale formalmente titolare del reddito. Tale ruolo deve, tuttavia, assumere una particolare pregnanza al fine di integrare la presunzione del possesso del reddito perché deve essere tale da comportare la traslazione del reddito realizzato dall’ente collettivo percettore interposto nel suo complesso (e, quindi, anche ai fini IRAP e IVA) al soggetto persona fisica interponente, come se fosse stato prodotto da quest’ultimo.
L’interponente non deve, pertanto, costituire un mero gestore dell’ente collettivo – la cui qualifica rileverebbe ai fini reddituali solo in caso di società di persone interposte, ovvero, in caso di socio, quale maggior reddito da partecipazione e solo ai fini IRPEF – dovendo accertarsi che l’interponente disponga delle risorse del soggetto interposto uti dominus. Si configura, pertanto, in relazione all’interponente, una fattispecie simile a quella della holding unipersonale, ossia di chi eserciti professionalmente, con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società (Cass. 6 marzo 2017, n. 5520; Cass. 3 giugno 2020, n. 10495). In caso di reddito di impresa deve, quindi, trattarsi di una prova alquanto rigorosa, che dimostri il totale asservimento della società interposta all’interponente, tale da dimostrare la relazione di fatto tra l’interponente e la fonte di reddito del soggetto imprenditoriale interposto.
È, quindi, nella prova della relazione dell’interponente con la fonte di reddito del soggetto interposto che si risolve la prova del “possesso” del reddito, la quale prescinde dalla natura dell’interposizione (ossia, se l’interposizione possa ricomprendere anche quella reale), atteso che la norma in oggetto imputa al contribuente i redditi formalmente intestati a un altro soggetto laddove, in base a presunzioni, egli ne risulti l’effettivo possessore, senza distinguere tra interposizione fittizia e reale (Cass. 27 aprile 2021, n. 11055; Cass. 22 giugno 2021, n. 17743). Si condivide, sotto questo profilo, quanto osservato da parte della dottrina, ove afferma che il legislatore tributario avrebbe codificato un principio di maggiore estensione rispetto alla dicotomia civilistica incentrata su titolarità effettiva – titolarità apparente, perché ciò che rileva ai fini tributari è il possesso del reddito formalmente attribuito a terzi (“effettivo possessore per interposta persona”), in luogo e in sostituzione del formale titolare dei redditi, fattispecie che si configura sia in caso di coinvolgimento di soggetti diversi, sia in caso di coinvolgimento di un unico soggetto. Trattandosi, pertanto, di possesso come situazione di fatto tale da comportare l’individuazione di un titolare effettivo del reddito complessivo diverso e divergente dal titolare formale (Cass. 19 ottobre 2018, n. 26414; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26057), esso appare coerente con il fatto che la prova è affidata anche a circostanze di carattere indiziario.
La questione merita un commento più approfondito che ci riserviamo nell’ambito della rivista. Certo è che la funzione della norma pare essere quella di evitare che a un soggetto interponente reale si sostituisca, nella fatturazione, un soggetto interposto irregolare (la tipica frode da operazioni “soggettivamente” inesistenti).
Sostituire un soggetto reale e regolare con un altro soggetto reale e regolare non dovrebbe in prima battuta rilevare a fini fiscali. Anche perché il fine simulatorio potrebbe non risiedere affatto in ambito tributario. Per attribuire alla simulazione un effetto fiscale (e quindi rendere applicabile l’articolo 37, nella sua ratio iuris ) occorrerebbe forse dimostrare che l’interposizione determina un risparmio fiscale, risparmio che, se accertato, anche in via presuntiva qualificata, potrebbe costituire davvero lo scopo della simulazione.
Senza questo passaggio si dovrebbe ragionevolmente essere al di fuori dell’ambito di applicazione del terzo comma dell’articolo 37. Per esempio se un soggetto ires si sostituisce ad un altro soggetto ires, in regime di imposte sul reddito proporzionali, non ha perdite da riportare, non gode di regimi di tassazione di vantaggio, paga l’IVA regolarmente, non si capisce che rilievo fiscale possa avere l’individuazione del “titolare effettivo” del reddito e del rapporto. Evidentemente la simulazione, se ci fosse stata, sarebbe avvenuta per scopi che niente hanno a che fare con la tassazione (es. un miglior appeal commerciale del soggetto interposto, migliori rapporti con il committente e così via).