Il “tovagliometro” non si arresta neppure davanti alla congruità da studi di settore.

by Luca Mariotti

La Sezione Tributaria nella Sentenza 24 settembre 2014, n. 20060 affronta le varie eccezioni poste da un ristorante oggetto di accertamento con procedura analitico-induttiva attraverso l’elemento delle tovaglie (rectius, dei tovaglioli) utilizzati e dei presunti coperti a tale utilizzo ricollegabili.

Un passaggio della sentenza merita di essere considerato attentamente. Quello nel quale i Giudici in primo luogo svolgono una considerazione di fondo sulle metodologie analitico-induttive evidenziando che “in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600/73, è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati (risultante, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto, e per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia), costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto idoneo, anche di per sè solo, a lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati. E tuttavia, è evidente che devesi, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale una certa percentuale di tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri, le evenienze più varie per le quali ciascun cliente può essere indotto ad utilizzare più tovaglioli, ecc. (cd. percentuale di sfrido) (cfr. Cass. 9884/02; 15808/06; 13068/11)”.

Tale premessa dovrebbe essere d’aiuto per decidere su un punto rilevante della linea di difesa. Ovvero in merito all’assunto che gli studi di settore congrui dovrebbero escludere (innestandosi lo strumento sullo stesso art. 39, primo comma, lett. d) del DPR 600/73) il c.d. “tovagliometro”. La Cassazione sul punto rileva che “non può  condividersi l’ulteriore assunto dei contribuenti, secondo i quali l’accertamento induttivo operato nel caso di specie sarebbe inficiato dalla conformità dei ricavi aziendali agli studi di settore in materia, dei quali l’Ufficio non avrebbe tenuto alcun conto.  Va osservato, invero, in proposito, che gli studi di settore costituiscono, come si evince dall’art. 62 sexies del d.l. n. 331/93, convertito nella l. n. 427/93, solo uno degli strumenti utilizzabili dall’ Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva – in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile – il reddito reale del contribuente. Siffatto accertamento, infatti, ben può essere condotto anche sulla base del riscontro – nella specie operato alla stregua degli elementi presuntivi suesposti – di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta”.

Questa motivazione non appare del tutto convincente non tanto nelle conclusioni, su cui si può essere o non essere d’accordo, ma sulla mancata considerazione del fatto che si tratta del conflitto tra due elementi di prova riferiti allo stesso tipo di accertamento e alla stessa specifica norma. Conflitto che in qualche modo deve essere superato sia in diritto che nei gradi di merito.

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