I limiti di produzione documentale in appello: permane (legittimanente) la differenza tra rito civile e rito tributario.

by admintrib

Torna di attualità la questione della produzione di documenti nuovi in appello con l’Ordinanza 2 marzo 2021, n. 5607 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Manzon, Rel. Putaturo Donati Viscido Di Nocera) che ripropone la dicotomia sul punto tra nuovo rito civile e processo tributario.

Nel processo civile vale infatti l’articolo 345, comma 3 c.p.c. il quale, nella formulazione della norma introdotta dalla Legge n. 69 del 18 giugno 2009 ed in vigore sino a settembre 2012, prevedeva la impossibilità di ammettere la produzione di documenti nuovi in appello, salvo “che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa”.

La modifica del comma 3 predetto, operata dall’articolo 54 del d.l. n. 83 del 2012 ha eliminato le parole poste tra virgolette. Quindi nel giudizio civile dall’entrata in vigore della nuova disciplina non è ammessa in appello la produzione di nuovi documenti condizionata all’ammissione di essi da parte del Collegio per i motivi anzidetti.

Di conseguenza nell’attuale formulazione della regola processualcivilistica non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi, però, il giuramento decisorio.

Nel rito tributario, l’art. 58 del D.Lgs. 546/92 prevede invece che “Il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile. E’ fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”.

La differenza tra il secondo comma dell’articolo appena citato e la norma civilistica è molto evidente e, come è noto, ha generato già un passaggio dinanzi alla Corte Costituzionale. Infatti la Commissione Tributaria Regionale di Napoli, con ordinanza n. 943/32/16 depositata il 6 maggio 2016, ha ritenuto il comma 2 dell’articolo 58 in contrasto “con gli articoli 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione, nonché con criteri di razionalità e con i principi generali dell’ordinamento“.

La Corte Costituzionale nella sentenza 199 del 2017 ha però confutato le ragioni addotte dai Giudici campani e, pur in un contesto di inammissibilità della questione, ha affrontato punto per punto le questioni poste, ritenendole oltretutto infondate. Ci ripromettiamo di ricordare la questione in modo più approfondito sul prossimo numero della rivista.

Nel caso dell’Ordinanza della Sezione Tributaria in esame, la CTR aveva ritenuto legittimo l’avviso di accertamento (fondato sugli studi di settore) senza valutare l’idoneità a giustificare il rilevato scostamento tra i redditi dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione dello studio di settore, della documentazione – già prodotta in primo grado con memoria e dichiarata inutilizzabile per tardività del deposito – ritualmente depositata nuovamente con l’atto di appello.

Il motivo viene ritenuto fondato.

I Giudici di Legittimità ricordano come nel processo tributario, l’art.58 comma 2 decreto legislativo 31 dicembre 1992 n.546, con disposizione derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria prevista dall’art. 345, terzo comma, c.p.c., consente la produzione di nuovi documenti in grado di appello senza richiedere che la mancata produzione nel precedente grado di giudizio sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte (ex plurimis, Cass. 19089 del 2016).

Non solo, ma la giurisprudenza della Corte stessa ha anche precisato che la produzione di nuovi documenti in appello, sebbene consentita ex art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992, deve avvenire, ai sensi dell’art. 32 dello stesso decreto, entro venti giorni liberi antecedenti l’udienza: tuttavia, l’inosservanza di detto termine è sanata ove il documento sia stato già depositato, benché irritualmente, nel giudizio di primo grado, poiché nel processo tributario i fascicoli di parte restano inseriti in modo definitivo nel fascicolo d’ufficio sino al passaggio in giudicato della sentenza, senza che le parti abbiano la possibilità di ritirarli, con la conseguenza che la documentazione ivi prodotta è acquisita automaticamente e “ritualmente” nel giudizio di impugnazione ( Cass. Sez. 5 – , Ordinanza n. 5429 del 07/03/2018; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 16652 del 25/06/2018);

Nel caso specifico dunque il giudice di appello non si è attenuto ai suddetti principi, essendosi limitato a confermare la decisione di primo grado che aveva disatteso i riscontri documentali asseritamente idonei a giustificare lo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione dello studio di settore, ritenendoli inutilizzabili, per tardività del deposito. Con ciò la CTR ha omesso di prendere in considerazione la documentazione già depositata e addirittura ridepositata nel termine previsto dall’art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992 contestualmente all’atto di appello violando le disposizioni specifiche del processo tributario già viste.

 

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