Nel caso in cui sia stata emessa (dalla stessa Cassazione) una sentenza avente il medesimo oggetto della lite, ancorché riferito ad un diverso e precedente periodo d’imposta, l’accertamento giudiziale già compiuto deve essere ritenuto valido per entrambe le cause.
Nel caso specifico, la questione era relativa alla sussistenza delle condizioni per la deducibilità, riconosciuta nella sentenza richiamata, di una delle venticinque quote annuali (e quindi di ciascuna delle venticinque quote annuali) in cui era stato suddiviso l’ammortamento relativo al disavanzo determinatosi a seguito di una fusione per incorporazione senza l’applicazione dell’imposta sostitutiva prevista dall’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 358 del 1997.
I Giudici di Legittimità ricordano che costituisce consolidato indirizzo giurisprudenziale il principio secondo cui, con riguardo alla materia tributaria, “qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il “petitum” del primo. Tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso, oltre a riguardare soltanto le imposte sui redditi ed a trovare significative deroghe sul piano normativo, si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente. In riferimento a tali elementi, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato appare d’altronde coerente non solo con l’oggetto del giudizio tributario, che attraverso l’impugnazione dell’atto mira all’accertamento nel merito della pretesa tributaria, entro i limiti posti dalle domande di parte, e quindi ad una pronuncia sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria (salvo che il giudizio non si risolva nell’annullamento dell’atto per vizi formali o per vizio di motivazione), ma anche con la considerazione unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, la quale impone, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di effettività della tutela giurisdizionale, di valorizzare l’efficacia regolamentare del giudicato tributario, quale “norma agendi” cui devono conformarsi tanto l’Amministrazione finanziaria quanto il contribuente nell’individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi d’imposta”, Cass. Sezioni Unite 16 giugno 2006, n. 13916.
A tal riguardo si è in particolare precisato che “l’efficacia del giudicato, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo nell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente (Cass. n. 6953 del 2015, n. 2433 del 2013)”, Cass. sez. V, 28.6.2017, n. 16067.
Accertata nella specie l’esistenza del giudicato esterno, il ricorso dell’Agenzia delle Entrate viene pertanto rigettato.
Solo per completezza la Corte rileva poi che la decisione n. 16598 del 2015 risulta pienamente condivisibile, avendo correttamente rilevato che la fusione di società, ai sensi dell’art. 123, commi 1 e 2 TUIR (nel testo vigente ratione temporis) risulta caratterizzata dal principio della neutralità della fusione, che indica l’inidoneità a determinare in capo alla società risultante dalla fusione il realizzo delle plusvalenze o delle minusvalenze latenti e risponde all’esigenza di precludere “salti d’imposta” o doppie imposizioni.
In forza di detto principio, la fusione di società è un evento improduttivo di effetti fiscalmente rilevanti, onde sussiste la irrilevanza fiscale dell’avanzo o, come nel caso di specie, del disavanzo di fusione. A tale principio generale della neutralità deroga, peraltro, il D.Lgs. n. 358 del 1997 vigente ratione temporis, che ha riconosciuto la rilevanza fiscale dei c.d. disavanzi da annullamento (quale quello in esame) nei limiti in cui la società risultante dalla fusione sia in grado di dimostrare che il maggior costo d’acquisto trova corrispondenza in un valore “che abbia concorso a formare il reddito di un’impresa residente”. Il presupposto per la rilevanza fiscale della fusione è dunque non già la concreta sottoposizione a tassazione, né la tassabilità dei maggiori valori corrispondenti al c.d. disavanzo di fusione, ma unicamente che detti valori abbiano concorso a formare il reddito di un’impresa residente.
L’ulteriore requisito della tassabilità di tale reddito è fuori dal perimetro applicativo della disposizione, e di tale ulteriore aspetto non può farsi carico l’incorporante, la quale, ai sensi del comma 3 della disposizione citata deve unicamente documentare “i componenti positivi o negativi di reddito”, relativi alle azioni o quote annullate in sede di fusione che siano state realizzate dalla stessa contribuente o, come nel caso di specie, dai precedenti possessori. L’incorporante non e viceversa tenuta a provare la sottoposizione a tassazione o comunque la tassabilità di tali componenti, che costituisce un ulteriore, distinto requisito”, Cass. sez. V, 7.8.2015, n. 16598.
Il ricorso introdotto dall’Agenzia delle Entrate viene quindi ritenuto infondato e dunque respinto.