Confisca dei beni utilizzati per commettere un reato societario: la Corte Costituzionale ritiene parzialmente illegittimo l’articolo 2641 del codice civile.

by AdminStudio

La Corte costituzionale nella sentenza numero 7 del 2025 depositata il 4 febbraio 2024, ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 2641, primo e secondo comma, del codice civile, che prevedeva l’obbligo di disporre la confisca di tutti beni utilizzati per commettere un reato societario, anche nella forma della confisca di beni di valore equivalente. Tale obbligo può, secondo la Corte, condurre a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati, ed è pertanto incompatibile con la Costituzione.

Con ordinanza del 27 febbraio 2024, la quinta sezione penale della Corte di cassazione aveva sollevato, nell’ambito della nota vicenda della crisi della Banca Popolare di Vicenza – in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, 42 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2641, primo e secondo comma, del codice civile, censurandolo «nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato».

Infatti il Tribunale di Vicenza, in primo grado, aveva disposto a carico di quattro imputati, la confisca dell’importo di 963 milioni di euro, corrispondente alle somme di denaro utilizzate per la commissione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia e della Banca Centrale Europea, dei quali gli imputati erano stati ritenuti responsabili. Ciò in relazione alla somma dei finanziamenti concessi a terzi per acquistare titoli della banca.

Tale confisca era stata ritenuta eccessiva in appello ed era stata revocata dalla Corte d’appello di Venezia la quale, pur confermando la responsabilità penale degli imputati, aveva giudicato l’entità della confisca in contrasto con il principio di proporzionalità presente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La questione è arrivata in Cassazione ed è stata sottoposta da questa, come detto, al vaglio della Corte Costituzionale. Di fatto la Corte di cassazione ha condiviso i dubbi della Corte d’appello circa la possibile sproporzione della entità dei beni sottoposti a confisca nel caso specifico.

La Consulta distingue due diverse fattispecie. Quella della confisca del “profitto” di un illecito ha «mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente» alla commissione del fatto in capo all’autore (nello stesso senso, ora, Corte EDU, sentenza 19 dicembre 2024, Episcopo e Bassani contro Italia, paragrafo 74). Una tale osservazione vale, allo stesso modo, per le confische disposte dall’autorità amministrativa e per quelle disposte dal giudice penale. Anche in relazione a queste ultime, infatti, la finalità essenziale della misura risiede nel sottrarre al reo l’utilità economica acquisita mediante la violazione della legge penale, e che egli non ha il diritto di trattenere, proprio in ragione della sua origine radicalmente illecita. Ciò che esclude quell’effetto peggiorativo della sua situazione patrimoniale preesistente, che necessariamente inerisce alle sanzioni dal contenuto “punitivo”.

Al contrario, la confisca dei “beni utilizzati per commettere l’illecito” (o semplicemente “beni strumentali”) incide su beni non ottenuti attraverso un’attività criminosa, e che dunque, di regola, erano legittimamente posseduti dall’autore del reato al momento del fatto; sicché la loro ablazione ad opera del giudice penale determina un peggioramento della sua situazione patrimoniale preesistente al reato.

In questo secondo caso, dunque, i riferimenti alle regole di garanzia riguardanti le sanzioni, sia interni che internazionali vanno riallineati con le norme interne.

Da tutto ciò deriva che la disciplina specificamente censurata dal rimettente (la previsione in termini obbligatori, nell’art. 2641, secondo comma, cod. civ., della confisca di una somma di denaro o beni di valore equivalente ai beni utilizzati per commettere il reato) è incompatibile con tutti i parametri evocati dal rimettente sui quali si fonda il principio di proporzionalità della pena, nella sua dimensione interna e sovranazionale: e dunque con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nonché – per ciò che concerne il diritto dell’Unione – con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.

Si tratta di una parziale incostituzionalità della norma. Il legislatore dovrà eventualmente vagliare la possibilità di fissare una nuova disciplina della confisca dei beni strumentali e delle somme di valore equivalente, nei limiti consentiti dal principio di proporzionalità. Nessuna ripercussione invece sulla regola che prevede la confisca del profitto del reato.

 

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