Con l’Ordinanza 8 ottobre 2014, n. 21289 la Corte di Cassazione torna sul tema dei benefici prima casa e ne dà una lettura sostanziale, coerentemente con l’indirizzo degli ultimi anni. Il tema, nel caso specifico, è quello del diritto o meno alle agevolazioni per chi possieda un immobile in comunione con altri.
Secondo il predetto indirizzo, la L. n. 549 del 28 dicembre 1995, all’art. 3, comma 135, ha modificato la nota II bis dell’art. 1 della tariffa allegata alla L. 28 aprile 1986, n. 131, chiarendo il significato della L. n. 118 del 1985, art.2, e precisando, con norma interpretativa della legislazione agevolata in materia di prima casa, il contenuto della dichiarazione – che l’acquirente deve inserire nel contratto – “di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l’immobile da acquistare”.
Proprio tale dizione importa che solo la comunione legale tra i coniugi osta all’agevolazione.
Invece la titolarità di una quota di un appartamento in comunione non preclude il beneficio, in quanto è connaturato alla natura del diritto d’abitazione il legame ai bisogni del titolare e “della sua famiglia” (art. 1022 c.c.) e l’incompatibilità di esso con ogni contitolarità, salvo che della comunione tra i coniugi.
Si deve escludere, pertanto, che la facoltà di usare il bene comune, purché non si impedisca a ciascuno degli altri comunisti “di farne parimenti uso” ex art. 1102 c.c., consenta di destinare la casa comune ad abitazione di uno solo dei comunisti, per cui la titolarità di quota è simile a quella di immobile inidoneo a soddisfare le esigenze abitative dell’acquirente, che è di certo compatibile con le agevolazioni.