Attività societaria di costruzione di immobili destinati alla vendita: le unità locate non possono essere considerate rimanenze ai fini del test di operatività delle società di comodo. Nel calcolo dei ricavi effettivi vanno considerati tutti i ricavi

by admintrib

Con ordinanza n. 3103 del 9 febbraio 2021 la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Sorrentino, Rel. Condello) ha sancito alcuni interessanti principi di diritto in merito sia alla corretta interpretazione dei principi contabili OIC in tema di complessi immobiliari costituiti da più unità sia ai fini del calcolo dei ricavi effettivi rilevanti per la rispondenza al test di operatività per le c.d. società di comodo.

Nei fatti con avviso di accertamento, per l’anno d’imposta 2006, l’Agenzia delle entrate procedeva al recupero a tassazione di maggior reddito imponibile nei confronti di una società in accomandita semplice e, con distinti atti impositivi, accertava un maggior reddito di partecipazione nei confronti dei soci. In particolare, l’Amministrazione finanziaria con l’atto impositivo emesso nei confronti della società contestava l’iscrizione tra le rimanenze di magazzino di un complesso immobiliare, ravvisando la sua destinazione all’investimento durevole ed all’utilizzo personale, e, dunque, riclassificava tutte le unità immobiliari facenti parte del complesso immobiliare da rimanenze dell’attivo circolante (non rilevanti per la determinazione dei ricavi minimi presunti ai fini del superamento del test di operatività) ad immobilizzazioni materiali (rilevanti per la determinazione dei ricavi minimi presunti).

A supporto di tale diversa riclassificazione motivava che gli immobili, originariamente destinati alla vendita, erano stati concessi in locazione e che i canoni percepiti avevano costituito l’unica fonte di reddito della società e che la società stessa non aveva svolto in modo esclusivo o prevalente l’attività di costruzione per la vendita, trattandosi di impresa ad oggetto «misto», ossia avente ad oggetto sia la gestione di immobili tramite la concessione in locazione che la loro ristrutturazione e vendita. La società contribuente ed i soci, con separati ricorsi, impugnavano gli avvisi di accertamento contestando la riclassificazione dei beni effettuata dall’Ufficio; tuttavia la Commissione tributaria provinciale di Pordenone respingeva i ricorsi avverso le quali le parti contribuenti proponevano separatamente appello. La Commissione tributaria regionale confermava le sentenze di primo grado ritenendo legittima la pretesa fiscale. Con separati ricorsi la società contribuente ed i soci chiedevano la cassazione delle sentenze di appello affidandosi a cinque motivi, due dei quali accolti dalla Corte (con assorbimento dei restanti, tranne uno risultato respinto).

Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto falsa applicazione delle norme codicistiche che presiedono alla redazione del bilancio, nella parte in cui i giudici regionali, aderendo alla tesi proposta dall’Ufficio, assumevano che, in virtù della prevalenza delle unità locate su quelle sfitte, tutto il complesso immobiliare dovesse considerarsi strumentale e pertanto ricondotto alle immobilizzazioni materiali.

I Giudici di Legittimità, accogliendo il motivo di ricorso dei contribuenti, hanno ricordato come si deve avere riguardo alla destinazione economica dell’unità immobiliare ai fini della sua iscrizione in bilancio tra gli investimenti durevoli (e dunque tra le immobilizzazioni) ovvero tra i beni del circolante (e dunque tra le rimanenze); nel caso di specie la riscontrata durata pluriennale e cumulativa di contratti di locazione stipulati dalla società aventi ad oggetto il maggior numero delle unità abitative che componevano il complesso immobiliare di Sacile non poteva consentire di considerare l’intero complesso immobiliare come bene strumentale, dovendosi necessariamente tenere distinte le unità abitative oggetto di locazione da quelle non locate. Con ciò la Corte ha affermato il principio di diritto per il quale “nel caso di complesso immobiliare costituito da più unità, ciascuna di esse ha una propria autonomia, in quanto distintamente identificabile al catasto; pertanto, deve escludersi che gli immobili rimasti sfitti possano essere, al pari di quelli oggetto di locazione, allocati in bilancio quali immobilizzazioni, trattandosi di immobili merce da classificare contabilmente quali rimanenze a disposizione della società ai fini della vendita”.

Con il secondo motivo i contribuenti hanno invece censurato la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994, nella parte in cui la Commissione regionale ha assunto che, anche laddove si volessero classificare quali beni «merce» gli immobili non locati, comunque la società non potesse essere considerata operativa, poiché tra i ricavi dichiarati figuravano, oltre ai canoni di locazione provenienti da «immobilizzazioni» destinate ad investimento (complesso immobiliare di Sacile) e concorrenti alla determinazione dei ricavi presunti, anche i corrispettivi di vendita provenienti da rimanenze degli immobili invenduti (altro complesso residenziale sito in Oderzo) non concorrenti secondo la CTR alla determinazione dei ricavi presunti e del reddito minimo presunto.

La Corte, accogliendo anche in questo caso il motivo di ricorso, ha rammentato che l’art. 30 legge n. 724 del 1994, nel dettare specifiche regole per individuare le società non operative, prevede, al comma 1, che ai fini del calcolo dei ricavi effettivi deve farsi riferimento a «l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico» e che la stessa Agenzia delle Entrate (circolare n. 25/E del 4 maggio 2007) ha spiegato che per i soggetti tenuti alla redazione del bilancio, occorre tenere conto: per i ricavi, della somma degli importi risultanti dalle voci Al e AS dello schema di conto economico previsto dall’art. 2425 del codice civile (ossia «ricavi delle vendite e delle prestazioni», «altri ricavi e proventi, con separata indicazione dei contributi in conto esercizio»); per gli incrementi di rimanenze, della somma delle variazioni positive delle voci A2, A3 e B11 (ossia «variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti», «variazioni dei lavori in corso su ordinazione», «variazioni delle rimanenze di materie prime, sussidiarie di consumo e merci»). I Giudici di Legittimità hanno dunque stabilito che nel calcolo dei ricavi effettivi, diversamente da quanto ritenuto dalla C.T.R., devono evidentemente essere presi in considerazione anche i ricavi provenienti dai beni non iscritti nelle immobilizzazioni assunte a riferimento per la stima dei redditi presunti.

In conclusione si ripropone la nota difficoltà ad applicare la normativa delle società di comodo ai molti casi concreti. Sarebbe forse arrivato il momento, dopo quasi vent’anni di problematiche, di prendere atto del fatto che società di comodo non esistono. La schermatura societaria nasce per esigenze concrete (dividere la sfera personale da quella aziendale, distinguere la gestione e i relativi rischi dal possesso di immobili). La crisi del mercato immobiliare, di là da venire all’epoca della nascita della normativa (1994) ha reso spesso insostenibile la grezza redditività ipotetica prevista dalla norma, ha ulteriormente penalizzato chi detiene aree non redditive o immobili da ristrutturare, ha limitato l’uso dei crediti fiscali in compensazione a chi già ha evidenti problemi gestionali. E’ a nostro modesto avviso una normativa rozza, anacronistica e di dubbia costituzionalità che dovrebbe forse finalmente essere accantonata.

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