Le medie di settore non costituiscono un “fatto noto”, storicamente provato, dal quale è sufficiente argomentare con giudizio critico, quello ignoto da provare, ma costituendo il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei; risultano inidonee, di per sé stesse, ad integrare gli estremi di una valida prova per presunzioni. Ne discende, pertanto, che, ai fini di legittimare il ricorso, in via analitico-induttiva, all’accertamento di maggiori redditi da parte dell’Ufficio, occorre che risulti la sussistenza, in concreto, di qualche elemento ulteriore, individuabile – in special modo – nell’abnormità e nell’irragionevolezza della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal contribuente e la media di settore, tale da incidere sull’attendibilità complessiva della dichiarazione (cfr. Cass. 20201/10; 27488/13).
Solo in presenza di una situazione nella quale la documentazione contabile del contribuente, sia pure formalmente regolare, possa considerarsi sostanzialmente inattendibile in quanto configgente con i criteri della ragionevolezza, soprattutto sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente, è consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti -, maggiori ricavi o minori costi. Il che può, in concreto, avvenire attraverso la determinazione del reddito del contribuente, da parte dell’ Amministrazione finanziaria, mediante l’utilizzazione – come è accaduto nella specie – delle percentuali di ricarico, con la conseguenza che l’onere della prova – in siffatta ipotesi – si sposta a carico del contribuente (Cass. 7871/12).
Queste le argomentazioni degne di nota di una interessante sentenza della Sezione Tributaria (24 settembre 2014 n. 20096).